Un modo per discutere di periferie credo possa essere quello di osservare le dinamiche che, nel tempo, hanno trasformato grandi aree urbane, dopo la progressiva dismissione dei poli industriali. Se è vero che è nel Sud che spesso si concentrano le criticità più stridenti in termini di bisogni dei territori e di degrado socio/economico/ambientale, con ricadute negative sul benessere della popolazione locale e riduzione progressiva delle opportunità e delle risorse endogene, va riconosciuta al tempo stesso l’evidenza di intere aree, quartieri, grossi concentramenti abitativi in cui la vulnerabilità sociale è elevatissima e declina in rischio di disagio, marginalità ed esclusione sociale, con percentuali di drop out in linea con condizioni di allarme sociale limite.
A Napoli, soprattutto nelle aree ad ex vocazione industriale, dismessi gli insediamenti produttivi, ci si è ritrovati con i capannoni abbandonati e con il loro lascito ereditario di amianto, in territori che hanno pagato un danno ambientale che solo la natura, in centinaia di anni, se lasciata libera di agire, potrà sanare, senza più neanche il parziale ritorno di una ricchezza socialmente prodotta e ridistribuita, in quota parte, tra la comunità locale. Queste aree, anche nel periodo di maggiore intensità produttiva, non hanno mai brillato per decoro abitativo, urbanizzazione razionale, mobilità efficace, infrastrutture e servizi; oggi quelle criticità sono divenute croniche, degenerando in aree di depressione, con altissimi tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile, assenza di luoghi di aggregazione, presenza di illegalità diffusa e organizzata, sporcizia, condizioni sanitarie preoccupanti, presupposti di tensione con insediamenti formali (esercizi e centri commerciali della comunità cinese, ad esempio) e informali (si pensi ai campi rom) di migranti.
Nel tempo, quella condizione di degrado si è aggravata, per assenza di politiche di riqualificazione, di riconversione produttiva, di ristrutturazione urbanistica e di sostegno e implementazione di attività sociali e socializzanti. Carenza di istituti scolastici, assenza di asili nido, di centri di aggregazione per giovani, anziani e minori; nemmeno un briciolo di verde pubblico e di strutture sportive, senza parlare di sale cinematografiche, teatri o anche solo di una minima illuminazione stradale.
In più, come ad esempio nella zona est di Napoli, le strade buie, isolate, l’esistenza di ponti ferroviari e viadotti, induce a una presenza ben visibile della prostituzione di strada, declinata in tutte le sue forme e, spesso, esercitata a contatto con edifici adibiti ad abitazioni, sprigionando tensioni mai emerse che covano potenziali ed allarmanti conflitti. Come spesso accade, poi, se in un’area si concentrano centrali a turbo gas, darsena petroli, depuratore poco funzionante, gasometri e oleifici/oleodotti dismessi, capannoni abbandonati infestati dall’amianto, terreni e falde acquifere inquinate da ogni sostanza nociva e cancerogena esistente (senza neanche un tentativo di messa in sicurezza), laddove gli indici di patologie tumorali si moltiplicano in ogni singola famiglia degli abitanti locali, allora si progetta di installare un inceneritore o un sito di stoccaggio rifiuti, magari in luoghi dove le falde, già irrimediabilmente compromesse, si trovano a mezzo metro dal suolo (esempio, la Manifatture Tabacchi di Gianturco).
Nuovo inquinamento, nuove minacce a una salute già al limite (se non oltre) della tollerabilità senza nemmeno il riscontro (amara consolazione) di una produzione di ricchezza sociale ridistribuibile.
Le zone più colpite esprimono una fortissima domanda di riqualificazione territoriale, anche se, spesso, la popolazione locale è poco incline ad avanzare proposte collettive (tranne alcune realtà che si sono strutturate sotto forma di comitati o coordinamenti di quartiere e cominciano a rivendicare istanze comuni) e opta, piuttosto, per soluzioni individuali, inseguendo questo o quel rappresentante municipale che si mostra disponibile a interessarsi della specifica problematica. Interventi spot che non vogliono né possono affrontare strutturalmente la complessa questione socio-economica ambientale delle zone più colpite dalla deindustrializzazione.
È chiaro che, in assenza di politiche dedicate, si può solo procedere per sperimentazioni. In tal senso, è possibile sostanziare un’idea di ristrutturazione e riqualificazione di una porzione di territorio conosciuto, come modello replicabile e collocabile in aree simili alle città metropolitane. Un’esperienza pilota, che pone le basi per un processo di riconversione territoriale finalizzato allo sviluppo di risorse endogene, in grado di procedere autonomamente anche ad esaurimento di eventuali fondi erogati per far partire il progetto.
È la replicabilità dell’azione il suo punto di forza che bilancia le difficoltà, oggettive, riscontrabili già in fase di progettazione e, ancor di più, in fase di progettazione operativa e di esecuzione delle azioni.
L’attenzione, quindi, si focalizza su zone che simboleggiano e racchiudono le contraddizioni tipiche della dismissione produttiva, come l’area est di Napoli e, in particolare, sulla zona di Gianturco. Qui sono concentrate tutte le criticità di cui abbiamo fatto cenno. Qui l’idea può prendere forma e vita, creando una rete con le risorse del territorio, coinvolgendo le realtà territoriali più sensibili, in un processo di progettazione partecipata che assuma la forma di incubatore: per la messa in sicurezza del territorio (questione ambientale) e la bonifica dei siti abusivi di rifiuti (anche speciali o tossici) lasciati in strada in quantità preoccupanti e pericolose; per l’attuazione di interventi di riqualificazione e di arredo urbano; di mediazione dei conflitti tra la comunità locale e le comunità di immigrati (cinesi e Rom) e tra la comunità locale e le persone che usano la strada e il territorio per prostituirsi. Un incubatore per la realizzazione di spazi pubblici di aggregazione, con verde, aree attrezzate e impianti sportivi, centri sociali per minori, giovani e anziani; per la progettazione di servizi sociali e alla persona, scuole, asili nido e per una migliore mobilità, garantita da un servizio pubblico puntuale, efficace, certo. Un incubatore di impresa per realizzare progetti sull’energie rinnovabili, per la creazione di attività volte al soddisfacimento dei bisogni del territorio anche in termini culturali, ricreativi; per strutturare servizi di orientamento al mercato del lavoro, alla formazione professionale, alla scuola, all’università.
È uno sforzo che non può essere delegato solo al privato «volenteroso» ma deve prevedere obbligatoriamente il coinvolgimento e il coordinamento dell’ente locale, soprattutto nella ricerca dei fondi adeguati che, a onor del vero, può trovare nelle iniziative promosse dal Fesr delle reali opportunità. È un’utopia kantiana che può trovare realizzazione in una dialettica, tra pubblico e privato, scevra da implicazioni elettoralistiche; concentrata sulla messa a punto di interventi che comincino a trasferire benessere sociale alla cittadinanza, rilevando il bisogno insoddisfatto, a partire proprio dalle aree più vulnerabili per aprirsi a tutto il tessuto metropolitano.
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