Tutti pazzi per Bollywood. Anche l’icona del cinema indiano, Ranbir Kapoor, si è schierata dalla parte del Tibet, e lo fa con l’aiuto dei testi di Irshad Kamil e la musica di Allah Rakha Rahman, già premio Oscar per la miglior colonna sonora originale e la miglior canzone originale di Slumdog Milionaire. Con la nuova produzione Rockstar, Kamil, Rahman e Kapoor puntano non solo a sbancare i botteghini, ma anche a rinnovare il sodalizio tra giovani indiani e tibetani. Una provocazione che non passerà di certo inosservata visto che la canzone più bella del film, Sadda Haq, pare essere stata studiata apposta per trasformarsi nel nuovo inno alla libertà e all’autonomia tibetana. Il ritornello di quello che ormai nel subcontinente (e non solo) è già diventato un tormentone, «Saadda haq, aithe rakh», letteralmente «i miei diritti, lasciameli!», è allo stesso tempo provocatorio e tagliente. «In un mondo fatto di persone», recita una strofa, «capita spesso di sbagliare. Ma indipendentemente da quello che farò, pur pensando che sia giusto, ci sarà sempre qualcuno che mi dirà che ho sbagliato. E allora chi ha veramente ragione? Per vivere libero seguendo il mio modo di pensare devo forse presentare una domanda ufficiale? Ma allora c’è chi ha su di me più diritti di quanti ne abbia io? I miei diritti, lasciameli!». Nel video queste parole sono associate alle immagini di una folla di giovani che sventola bandiere tibetane e, in chiusura, di monaci buddisti in esilio: far scorrere sullo schermo lo slogan «questa volta chiedi ciò che ti appartiene» non può che essere interpretato come un forte incoraggiamento rivolto ai tibetani. Per spronarli a far sentire la loro voce, per continuare a lottare fino a quando la Repubblica popolare cinese non si deciderà a riconoscere loro tutti quei diritti che vengono da troppo tempo calpestati. Non solo: chi ha un po’ di familiarità con la storia della comunità tibetana in esilio riconosce subito che il video di Sadda Haq è stato girato a Dharamsala, la città indiana che ha accolto il Dalai Lama in fuga dal Tibet.
Il rapporto tra indiani e tibetani è molto diverso da quello che questi ultimi intrattengono con i cinesi. I matrimoni misti sono all’ordine del giorno, e gli esuli del Tibet che risiedono nel subcontinente dai tempi della “conquista” cinese del 1949 non si sono mai sentiti emarginati. Se appena arrivati venivano riservati loro solo i mestieri più umili, col tempo sono riusciti anche a migliorare la propria posizione sociale offrendosi come interpreti e reinventandosi come commercianti di tessuti e spezie. Insomma: in India i tibetani hanno vissuto “liberi”. Gli immigrati di seconda generazione ammettono di sentirsi lusingati dal fatto che l’ultimo colossal bollywoodiano abbia dato voce alla lotta per l’indipendenza tibetana. Da bambini hanno conosciuto l’India proprio grazie ai suoi film. In un primo momento ne hanno ammirato soltanto suoni e colori, mentre in una fase successiva, dopo aver imparato un po’ di hindi, le stesse pellicole hanno aperto loro gli occhi sulla cultura, la storia, le tradizioni e i modi di fare del popolo che li aveva accolti.
A partire dagli anni Sessanta i registi di Bollywood hanno iniziato a inserire nelle loro produzioni anche personaggi tibetani: un po’ esotici, sempre sorridenti, dalle guance rosse. Le donne, dalla personalità pura e innocente, rappresentate come innamorate devote, gli uomini romantici e protettivi raffigurati come grandi esperti di arti marziali. Immagine stereotipate che non hanno mai infastidito i tibetani che, al contrario, vi si sono riconosciuti completamente. In una fase successiva sono comparsi anche i costumi tradizionali tibetani, e bellissime danzatrici dell’Himalaya sono state riprese a ballare con le colleghe indiane le coreografie bollywoodiane più alla moda. Il taglio di Rockstar è invece esclusivamente politico: mettendo da parte cultura e tradizioni, si inizia a parlare di libertà, indipendenza e democrazia pur senza fare riferimenti espliciti alla violenza del governo e della colonizzazione cinese. Tutti in India sanno che nella regione autonoma del Tibet arresti, torture ed esecuzioni ingiustificate sono all’ordine del giorno. Ecco perché, consapevoli di poter fare ben poco per fermare questo inutile massacro, i registi del subcontinente hanno deciso di aiutare questo popolo almeno portandone sul grande schermo problemi e frustrazioni.
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