Tira una brutta aria nel Partito democratico. Non l’aria dell’uomo solo al comando o della democradura, come alcuni immaginavano. Per progettare imprese di questo genere, se mai davvero si volessero tentare, servono capacità organizzative e strategiche che non si trovano nel Pd. Nessun rischio dittatura, quindi, rapidamente rimesso nel cassetto da tutto quello stuolo di giuristi-opinionisti pronti a gridare al colpo di Stato, più o meno permanente, a ogni battito di ciglia renziano. Dentro il Partito democratico circola una brutta aria perché il partito, a partire dal suo segretario, ha perso la bussola e non sa esattamente dove e come andare. “Sotto la rottamazione niente”: potrebbe essere questa la sintesi della parabola del renzismo, della prima e della seconda ora. Sconfitto il progetto della “ditta” post-comunista, che aveva molti difetti ma almeno possedeva una sua coerenza strategica interna, nessuno ha mai capito quale fosse il modello di partito che il nuovo segretario e la sua ristrettissima cerchia (poco magica) di collaboratori si sarebbero impegnati a costruire. Al di là di qualche hashtag (#partitoleggero, #modellousa, #partitoaperto), dalla rinnovata segreteria del Pd non è uscita alcuna proposta originale; soltanto qualche ripetitivo cinguettio con i quali non è pensabile di poter governare né, ancor meno, cambiare un’organizzazione tanto complessa come quella di un partito politico.
Poi, asciugate le ferite causate da alcune brucianti sconfitte nei recenti ballottaggi comunali, è finalmente arrivata l’illuminazione sulla via di Arezzo e Venezia: “Farò un partito modello Usa, ma basta primarie”. Un intervento davvero rivelatore, assolutamente illuminante. Finalmente si è capito che né il segretario né la sua segreteria possiedono un’idea chiara di che cosa sia un “modello di partito”, tantomeno nella sua variante americana, e di quale sia il ruolo o l’importanza delle elezioni primarie. Pensare di volere costruire un “partito modello Usa” nascondendo sotto il tappeto il piccolo – ma fondamentale – dettaglio delle primarie, senza le quali quel modello neppure esisterebbe, è un’operazione che rivela lo stato confusionale presente all’interno del Pd. Anche perché – diciamolo chiaramente – senza le primarie, che hanno permesso la convivenza in un ambiente competitivo dei post-comunisti e dei post-democristiani, quel partito e persino il suo attuale leader semplicemente non esisterebbero.
Che fare dunque? Questo interrogativo ha un senso se si ritiene che il Partito democratico debba continuare a esistere e non voglia trasformarsi in qualcosa di diverso, magari in quel PdR (Partito di Renzi) più volte evocato da Ilvo Diamanti o in una qualche altra forma di partito personale dove nomine e decisioni vengono “serenamente” paracadutate dell’alto. Se così fosse, basta primarie: perché esse rappresentano l’antitesi perfetta di un potere racchiuso nelle mani di poche, pochissime persone.
Se invece si pensa che l’impresa del Partito democratico sia ancora valida, allora è necessario riflettere sulla sua organizzazione e sulla funzione delle primarie. Una riflessione, però, che non deve, o non dovrebbe, partire da sbrigativi giudizi di valore (“primarie sì, primarie no”: per partito preso), ma da un’analisi seria, dettagliata, ragionata su uno strumento che ha caratterizzato l’intera, breve storia del Pd. In pochi sanno, e certamente non coloro che quasi quotidianamente (s)parlano di primarie sui giornali senza aver mai approfondito la questione, che di primarie in Italia se ne sono ormai fatte un migliaio: cento all’anno nell’ultimo decennio, nella stragrande maggioranza dei casi su proposta del Partito democratico o della coalizione di centrosinistra. Chi ritiene che le primarie siano in crisi, abbiano stancato o, addirittura, abbiano prodotto esiti catastrofici, dovrebbe prima leggere il Rapporto sulle elezioni primarie in Italia, curato dal gruppo di ricerca Candidate & Leader Selection su richiesta di iDemLab, un think tank dell’area riformista Pd.
Sfogliando le pagine di quel Rapporto, si possono imparare molte cose sul fantomatico popolo delle primarie, spesso condannato o sbeffeggiato senza davvero conoscerlo, sulle opinioni degli iscritti al partito e sul concreto funzionamento delle primarie. È solo una favola quella dei gazebo presi d’assalto da elettori di centrodestra e da truppe cammellate di stranieri. Nella stragrande maggioranza dei casi (85%), alle primarie partecipano elettori di centrosinistra che non hanno alcuna intenzione di “inquinare” il voto, ma intendono esprimere con efficacia la loro preferenza sulle candidature in campo. Certo, non si tratta soltanto di iscritti, anche perché quelli sono in costante diminuzione e, in certi casi, loro sì, anche di dubbia provenienza. Soltanto un elettore su quattro delle primarie possiede la tessera di partito, mentre tutti gli altri fanno parte di quella platea vasta, eterogenea, sfuggente di simpatizzanti senza la quale non è possibile costruire nessun vero partito aperto, inclusivo, leggero o, più banalmente, moderno.
Sono gli stessi iscritti, quelli sempre evocati, ma mai veramente ascoltati, a ritenere che le primarie debbano essere lo strumento principale per scegliere i candidati parlamentari, sindaci, presidenti di regione o del Consiglio. Oltre otto tesserati del Pd su dieci ritengono che le primarie abbiano migliorato il loro giudizio sul partito e siano riuscite a innescare un processo di rinnovamento della classe politica. Ora, tutto questo patrimonio, d’idee e di risorse, dovrebbe essere gettato al vento soltanto perché in alcune città o regioni le primarie non hanno selezionato il candidato “ideale” (ammesso che esista) in grado di battere gli avversari di centrodestra? Ma, anche qui, se si analizzassero i quasi novecento casi di primarie comunali promosse dal Pd o dal centrosinistra, si scoprirebbe che all’incirca il 60% dei candidati scelti attraverso il coinvolgimento dei simpatizzanti ha vinto anche nelle elezioni generali. Dunque, non è vero che le primarie fanno perdere o conducono alla scelta di candidati deboli, estremisti o portatori di proposte radicali lontane dall’elettorato di centro.
Ci sono certamente stati casi – inutile nasconderlo – nei quali le primarie non hanno funzionato o hanno prodotto esiti infelici. Ma volersi sbarazzare delle primarie soltanto perché non si è riusciti ancora a produrre regole e regolamenti adatti allo scopo, che è quello di evitare comportamenti scorretti di qualche candidato o elettore, sarebbe come amputarsi un arto per togliersi un fastidio a un dito. Un errore imperdonabile che snaturerebbe il Partito democratico e non contribuirebbe affatto a migliorare la già scadente qualità della democrazia italiana. Non è con la rottamazione delle buone idee e pratiche che si costruisce un partito migliore.
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