“Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi siano chiare, semplici, e che tutta la forza della nazione sia condensata a difenderle, e nessuna parte di essa sia impiegata a distruggerle”. Così Cesare Beccaria nel 1764. Uno spunto particolarmente attuale se guardiamo al disegno di legge anticorruzione approvato pochi giorni fa dal Senato. Una riforma che si cerca di condurre in porto – in attesa della deliberazione della Camera – a neppure tre anni dalla legge Severino del 2012 che pure aspirava a fornire una duratura cornice di regolazione alle politiche di prevenzione e contrasto della corruzione, a conferma dei limiti e degli esiti deludenti da essa conseguiti. Ma che – c’è da temere – non vi pone rimedio. Un piccolo, esitante passo nella giusta direzione. Presumibilmente insufficiente, però, a scalfire i robusti equilibri della corruzione sistemica. Quella, per intenderci, che nelle parole di uno dei protagonisti dello scandalo che ha investito il Comune di Ischia, si fonda su “protocolli” consolidati, su regole non scritte ma ben conosciute agli addetti ai lavori, che sempre più spesso rendono le pratiche di corruzione invisibili ai radar dei magistrati: “Lo strumento di ‘penetrazione’ da parte di Cpl nelle pubbliche amministrazioni, stazioni appaltanti dei lavori e dei servizi cui la Cpl è interessata, è rappresentato dalle consulenze, dal subappalto ovvero dalle forniture in favore di soggetti legati ai pubblici ufficiali che gestiscono i medesimi appalti. Voglio dire che Cpl affida o una consulenza (più o meno fittizia) ovvero individua un subappaltatore o un fornitore segnalato dal soggetto pubblico che poi gli fa aggiudicare l’appalto o che gestisce le pratiche amministrative, tanto è avvenuto, secondo un protocollo ben consolidato” ("Corriere della Sera", 5.4.2015).
Perché non convince questa impostazione? Una delle maggiori intuizioni di Beccaria trova conferma nella scienza criminologica. Inasprire la severità della punizione ha un’efficacia deterrente estremamente limitata, conta molto di più l’ aumento della probabilità di incorrere rapidamente in una sanzione: “L’evidenza esistente non conferma l’esistenza di un qualsiasi beneficio nella sicurezza pubblica nella pratica di accrescere la severità delle pene imponendo più lunghe pene detentive. In effetti, i risultati delle ricerche dimostrano che un accrescimento delle pene detentive risulta controproducente” (The Sentencing Project, p. 11, trad. mia). Non la severità, ma la certezza della pena contribuisce a scoraggiare il crimine, alimentando anche quel senso di giustizia che dovrebbe accompagnare l’applicazione di qualsiasi sanzione penale.
In effetti, nel segnalare l’anomalia italiana, tanto le rilevazioni statistiche che i rapporti degli organismi internazionali (Ocse, Ue, Consiglio d’Europa, Onu) puntano concordemente il dito soprattutto contro l’elevata aspettativa di impunità per i protagonisti dei reati di corruzione, causata in particolare dalle modalità di calcolo dei tempi di prescrizione e dall’indebolimento dei reati sentinella (come abuso d’ufficio, falso in bilancio, reati tributari ecc., indagando sui quali i magistrati arrivano talvolta a scoprire una sottostante corruzione), oltre che sulla complessa codificazione dei corrispondenti reati. Ma questi punti non sono toccati, se non marginalmente dal disegno di legge anticorruzione. Non si opera alcun riordino-semplificazione della complicata normativa sui reati di corruzione, situazione deterioratasi con la Severino a seguito dello “spacchettamento” della vecchia concussione e con l’introduzione delle contorte fattispecie di traffico di influenze illecite e corruzione privata. Non si riforma il sistema della prescrizione – i cui tempi si allungheranno con l’incremento delle pene, ma in attesa di una riforma organica del sistema (ad esempio interrompendone il decorso dopo il rinvio a giudizio o con la condanna di primo grado) senza che vengano meno gli incentivi a strategie dilatorie della difesa. Non s’introducono meccanismi che – analogamente a quanto già accade per la lotta alla criminalità organizzata – possono migliorare la capacità di scoprire o perseguire i reati di corruzione, mediante un ricorso più esteso alle intercettazioni, o tramite la figura dell’agente sotto copertura. Lo stesso ripristino del falso in bilancio, auspicato da tutti gli osservatori internazionali, appare indebolito proprio dalla chirurgica previsione di una pena massima di cinque anni per la stragrande maggioranza di imprese non quotate in borsa, tetto che impedirà il ricorso alle intercettazioni. Col risultato di rendere presumibilmente occasionale e incidentale la scoperta di tali reati, da cui poi – seguendo il flusso dei fondi neri creati con le falsificazioni contabili – si potrebbe arrivare talora a “tracciare” il flusso di tangenti.
Si potrebbe andare avanti ma il senso dovrebbe essere chiaro. È relativamente semplice e di sicuro effetto inasprire le pene, si tratta di una ben visibile “bandiera” da sventolare – magari in campagna elettorale – per segnalare il proprio impegno anticorruzione. Ma la lotta a una prassi di corruzione che si è fatta endemica in troppi gangli vitali della politica, dell’amministrazione, delle imprese, della finanza, richiederebbe ben altro salto di qualità. Per tornare a Beccaria: “Perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi”. Troppe storture del sistema di regolazione e repressione dei reati di corruzione sono destinate a persistere al progetto di riforma recentemente approvato al Senato.
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