La decisione che la Giunta per le elezioni del Senato della Repubblica si avvia a prendere sulla decadenza di Silvio Berlusconi dalla carica di senatore, in applicazione della “legge Severino” (dal nome del ministro pro tempore della Giustizia Paola Severino, cfr. il decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235), è densa di implicazioni e giuridiche e politiche.
La “legge Severino” prevede che “coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione” per reati particolarmente efferati (come l’induzione alla prostituzione, la criminalità organizzata, i delitti contro la Pubblica amministrazione), “non possono essere candidati e non possono comunque ricoprire la carica di deputato e di senatore” (art. 1); se l’incandidabilità “sopravvenga o comunque sia accertata nel corso del mandato elettivo” – è questo il “caso Berlusconi” – “la Camera di appartenenza delibera ai sensi dell’articolo 66 della Costituzione” (art. 3). Proprio il riferimento a questa norma costituzionale, secondo cui “Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità”, pone il principale problema giuridico di questa vicenda. L’art. 66 Cost. stabilisce un principio a tutela dell'autonomia parlamentare: con la conseguenza che in ordine ai titoli di appartenenza dei propri componenti, le Camere sono sovrane, e il loro giudizio non è sindacabile da parte di nessun giudice, neppure dalla Corte costituzionale. Nel richiamare l’art. 66 della Costituzione, la “legge Severino” rispetta questo principio? La “incandidabilità-decadenza”, in altri termini, opera automaticamente o può essere liberamente apprezzata dalle Camere?
Se si riconosce che la norma sulla “incandidabilità-decadenza” impedisce alle Camere qualsiasi valutazione politica, la “legge Severino” è incostituzionale e non può essere applicata. Se, invece, l’interpretazione è nel senso di non impedire l’autodeterminazione degli organi parlamentari competenti a giudicare dei titoli di ammissione dei propri componenti, si deve riconoscere la piena legittimità della “legge Severino”{C} e, di conseguenza, ammettere che la Giunta per le elezioni del Senato potrà apprezzare senza limiti gli effetti della condanna definitiva di Silvio Berlusconi sulla sua posizione di parlamentare della Repubblica.
La mia opinione è che la “legge Severino” è sì chiara, nel senso di prescrivere l’incompatibilità assoluta con la carica di parlamentare di chi riporta una determinata condanna con sentenza passata in giudicato; ma poiché non consente alle Camere di operare liberi giudizi, obbligandole a dichiarare la decadenza quando ne ricorrano i presupposti, essa viola apertamente l’art. 66 della Costituzione. Non mi sembrano insuperabili gli argomenti di chi, a sostegno, viceversa, della legittimità costituzionale della legge, ricorda che la norma sulla “incandidabilità-decadenza” dei parlamentari ripete analoga regola già da tempo prevista per le elezioni locali. O, ancora, che a conferma della piena conformità a Costituzione della legge, vi sarebbe che, in sede di approvazione, nessuna pregiudiziale di costituzionalità sia stata sollevata dai parlamentari. Non è decisivo il primo argomento: solo per lo status di parlamentare, e non per altre cariche elettive, esiste una norma di “prerogativa costituzionale” come l’art. 66 Cost. Non il secondo: le valutazioni compiute in sede parlamentare attengono alla sfera politica, e non possono conferire o negare patenti di legittimità a nessuna legge; compito, questo, che per Costituzione spetta solo alla Corte costituzionale.
Ma se è vera l’opinione circa l’illegittimità, le Camere possono applicare una legge contra constitutionem, addirittura, come in questo caso, quando la “legge Severino” viola una “prerogativa” parlamentare costituzionalmente sancita? La risposta negativa che mi sento di sostenere pone, a cascata, una serie di problemi giuridici complicati. Può il Senato di fronte alla riconosciuta violazione della Costituzione limitarsi a non applicare la “legge Severino”, quasi si trattasse di compiere una valutazione politica qualsiasi? O piuttosto, come qualcuno ha sostenuto, anche autorevolmente, il Senato di fronte a un vizio di costituzionalità (quello qui indicato, o altro che sia) deve rimetterne il giudizio definitivo alla Corte costituzionale? E in che modo, se, come prevede il nostro diritto costituzionale, una simile questione può essere portata alla Corte costituzionale solo da un organo giurisdizionale e nel corso di un processo? Può il Senato, in sede di verifica dei poteri dei propri componenti, essere considerato – come qualcuno ha sostenuto – un “giudice” (sia pure in senso oggettivo, ossia per le funzioni para-giurisdizionali esercitate in quella sede)? Può, altrimenti, rinvenirsi nel caso di specie una lesione di un’attribuzione costituzionale, quella prevista dall’art. 66 Cost., che legittima la Giunta per le elezioni del Senato a ricorrere direttamente alla Consulta, seguendo la diversa via del “conflitto di attribuzioni”? E chi sarebbe in questo caso il convenuto? Lo stesso Parlamento che ha approvato la legge (per cui il ricorso sarebbe quello di una camera contro entrambe e, sostanzialmente del legislatore contro se stesso)? O, invece, è immaginabile un ricorso della Giunta del Senato contro la Procura della Repubblica, che ha comunicato la condanna definitiva di Silvio Berlusconi, al fine di farne dichiarare la decadenza come prescrive la “legge Severino”?
Potrei continuare all’infinito, vista la particolare complessità della vicenda di cui discutiamo. Ma tra tutti i problemi, lo ripeto, quello della compatibilità con il libero giudizio parlamentare sui titoli di ammissione mi pare il più serio. Non mi convincono altre questioni tecniche, pure avanzate da autorevoli colleghi costituzionalisti che sono stati chiamati, da una parte e dall’altra, a rendere pareri pro veritate, secondo l’uso invalso in Italia di far dire ai dottori della Costituzione ciò che piace a questa o a quella parte politica. Sicuramente non persuade l’argomento di chi riconosce l’illegittimità della legge Severino nel “caso Berlusconi” perché "norma penale", perciò inapplicabile retroattivamente, secondo il divieto contenuto nell’art. 25 Cost.: i reati acclarati, prima dai giudici comuni e, poi, dalla Cassazione, sono stati compiuti, infatti, prima dell'entrata in vigore della disciplina; essa, perciò, andrebbe applicata solo ai fatti penalmente rilevanti compiuti e accertati dopo la sua approvazione e, quindi, non a Silvio Berlusconi. Anche se si può dubitarsi della natura "penale" della norma (ma a me non pare affatto dubbia, trattandosi di una sanzione di ordine politico-amministrativo, connessa a condanne passate in giudicato, per chi ricopre funzioni pubbliche elettive), taglia la testa al toro il presupposto legale della “incandidabilità-decadenza” e, cioè, la condanna definitiva subita, e non i fatti materiali che l’hanno causata.
Su ogni problema giuridico, tuttavia, graverà l’immenso valore politico della vicenda. Non si tratta della decadenza di un parlamentare qualsiasi, ma di un esponente politico che è stato per quattro volte presidente del Consiglio dei ministri, e che ancora dopo vent’anni è il leader assoluto di uno dei principali partiti politici nazionali. Un leader che, dopo la controversa crisi del suo IV governo, ha consentito insieme al Partito democratico il varo del “governo dei tecnici” guidato da Mario Monti; e, dopo le elezioni politiche, che ha sostenuto, insieme al Partito democratico, la rielezione di Giorgio Napolitano. Una rielezione eccezionale – è bene ricordarlo – funzionale a realizzare, con la nascita di un “governo del presidente della Repubblica”, per la prima volta autenticamente di “grande coalizione” (sostanzialmente tra il Partito democratico e il Popolo della libertà), il preciso compito di portare a compimento un piano di riforme (istituzionali, politiche e economico-sociale) non solo non più rinviabili, ma sulle quali si gioca il destino di gran parte dell’attuale classe politica e, quindi, di fronte all’irresistibile crescita dell’antipolitica, il destino dell’intero Paese.
La decisione della Giunta per le elezioni del Senato non sarà priva di conseguenze politiche rilevanti, qualunque essa sia. Se dichiarato decaduto, è difficile credere che Silvio Berlusconi vorrà continuare a sostenere il governo di Enrico Letta; come non è pensabile, senza fratture politiche drammatiche, un nuovo governo senza l’appoggio diretto o indiretto del Popolo della libertà (men che meno un ticket Partito democratico-Movimento 5 Stelle, visto soprattutto il core business di Beppe Grillo & co.). Quale sarà, per Giorgio Napolitano, in caso di crisi di governo, l’alternativa pacifica a un inevitabile scioglimento anticipato delle Camere? E, dunque, l’alternativa a nuove elezioni, per di più ancora col famigerato “porcellum”? E se Silvio Berlusconi vincesse le nuove elezioni, chi si sentirebbe di innalzare, sulla volontà popolare, il vessillo di una legge di dubbia costituzionalità, per impedire al leader della nuova maggioranza politica di sedere in Parlamento e, soprattutto, di guidare il governo del Paese?
Una decisione della Giunta del Senato favorevole al Cavaliere avrebbe strascichi soprattutto per il Partito democratico. Le conseguenze riguarderebbero la tenuta dell’attuale gruppo dirigente, probabilmente accelerando il processo di ricambio della leadership (anche se ciò, forse, non dispiacerebbe a una parte di quel partito). Un atteggiamento di disponibilità del Partito democratico nei confronti di Silvio Berlusconi aumenterebbe la distanza tra i leaders democratici e la propria “base”, almeno quella più strutturata, ancora legata alle antiche, ma mai dimenticate, radici comuniste e, perciò, non disposta a cedere un millimetro sulla “questione morale”. Ma, una diversa decisione del Partito democratico, il cui voto è comunque decisivo in Giunta per le elezioni, avrebbe conseguenze meno drammatiche? In definitiva: in nome di una molto discutibile applicazione in questo caso della regola per cui la “legge è eguale per tutti”, discendente dalla controversa norma sulla “incandidabilità-decadenza”, il Partito democratico è davvero disposto a far fallire l’unica formula politica di governo oggi possibile e, con essa, il piano di lavoro predisposto nell’interesse del Paese dal “suo” capo dello Stato?
La teologia politica insegna che quando decisioni contingenti, ispirate da logiche particolari o partigiane, rischiano di mettere a repentaglio l’interesse generale che rende coesa una comunità politica, salus rei publicae suprema lex esto, la salvezza della Repubblica è l’unica legge da rispettare. La questione relativa all’eventuale uscita di scena di Silvio Berlusconi, sia pure nel senso limitato della decadenza dal seggio di senatore, ci piaccia o non ci piaccia, ne rappresenta un caso esemplare.
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