A un anno dal massacro di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023, la regione dell’Asia occidentale (ossia il Medioriente senza connotazioni di sicurezza) conosce il dispiegarsi di una guerra in piena e rapida espansione. Una guerra che non conosce più alcun limite, alcuna “linea rossa” in termini di rispetto dell’umanità delle popolazioni. Crimini di guerra, crimini contro l’umanità sono accuse mosse contro Israele e Hamas non solo dalle parti direttamente coinvolte ma anche da parti terze, che si basano su elementi fattuali e ben documentati da fonti diverse e concordanti. Nessuno ama essere chiamato a rispondere di atti così disumani, dunque non sorprende che né il governo israeliano né la dirigenza di Hamas neghino la validità di tali accuse. Rimangono però i fatti, documentati, che rendono fondate le accuse di crimini di guerra e contro l’umanità. A queste si aggiunge l’accusa di genocidio, categoria che inquadra i singoli crimini in un progetto politico più definito.
Nella “nebbia della guerra”, ossia della propaganda che ha per obiettivo quello di legittimare le proprie azioni sempre descritte come “a difesa di” o “per la causa”, al fronte di Gaza si sono aggiunti quelli in Cisgiordania, in Libano e, seppur a distanza, in Iran e nello Yemen. Tutti fronti aperti subito all’indomani del 7 ottobre e delle rappresaglie di Tel Aviv, alimentati poi dalla guerra a oltranza a Gaza del governo delle destre israeliane. Tutti fronti che ora diventano “i fronti” della guerra a oltranza: da un lato perché l’incapacità di venire a capo della questione palestinese con la forza militare ha trasformato la Striscia di Gaza in un “pantano” che le destre israeliane devono minimizzare, pena l’assunzione di responsabilità politica. Dall’altro lato perché sono fronti ritenuti più congeniali a Israele, grazie alla sua preparazione da tempo: in Libano, dall’ultima sconfitta politico-militare del 2006 contro Hezbollah; nella Siria in guerra, con i bombardamenti costanti e gli assassinii mirati dal 2012; in Iran, da decenni con attentati contro il personale coinvolto nel progetto nucleare oppure in quel sistema di alleanze che è l’Asse della Resistenza.
L’incapacità di venire a capo della questione palestinese con la forza militare ha trasformato la Striscia di Gaza in un “pantano” che le destre israeliane devono minimizzare, pena l’assunzione di responsabilità politica
Proprio quest’ultimo diventa ora l’obiettivo delle destre israeliane, perché oggi rappresenta una delle forme più radicali, e violente, di opposizione ad alcuni degli elementi costituenti della loro politica: primo, la supremazia militare assoluta nella regione; secondo, la negazione del carattere collettivo, organizzato e dunque politico della questione palestinese. Negazione questa che legittima il processo di colonizzazione delle terre occupate, di espropriazione delle risorse e, in ultima analisi, di negazione del diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione.
Come il violento attacco di Hamas del 7 ottobre aveva come obiettivo quello di contrastare la marginalizzazione della questione palestinese in ambito regionale in atto con gli Accordi di Abramo del 2020, così la guerra del governo israeliano desidera riaffermare proprio quella marginalizzazione che a livello regionale le aveva permesso di normalizzare le relazioni con Emirati Arabi del Golfo, Bahrain, Marocco e, in prospettiva, Arabia Saudita. Se prima questo processo era il risultato di negoziati e influenze reciproche, ora deve essere imposto con la forza militare. Dalla regione degli Accordi di Abramo a Gaza, e ritorno.
Come è stato per il tentativo delle destre negli Stati Uniti di ri affermare la loro supremazia nella regione dopo l’11 settembre 2001, sono ora le destre israeliane a voler imporre un nuovo ordine nella regione
Il tentativo di sconfiggere l’Asse della Resistenza in tutte le sue forme, dalla Palestina al Libano, dalla Siria allo Yemen fino all’Iran può sicuramente interessare tutti gli Stati e le forze politiche che sono anch’essi rivali di Teheran: dagli Stati Uniti, all’Arabia Saudita, agli Emirati. La stessa Turchia e pure il Qatar potrebbero ben guadagnare da un Iran indebolito nel Golfo e nel Levante. Tuttavia, la brutalità della condotta di guerra di Israele a Gaza e in Libano, che alimenta l’ostilità pubblica nei confronti di Tel Aviv se non dell’intera nazione israeliana, così come la tradizionale pratica delle alleanze “contro-egemoniche” sono elementi già oggi sufficienti a limitare l’efficacia delle politiche di potenza delle destre israeliane. A queste si aggiungono le guerriglie a Gaza e in Libano, il cui successo politico è proporzionale alla loro durata nel tempo.
Come è stato per il tentativo delle destre negli Stati Uniti di ri affermare la loro supremazia nella regione dopo l’11 settembre 2001, prima con l’invenzione dell’Asse del Male e poi l’invasione dell’Iraq, sono ora le destre israeliane a voler imporre un nuovo ordine nella regione. Un ordine che nel nome del diritto alla sua difesa o addirittura alla stessa esistenza rigetta la questione palestinese: ossia, il diritto all’autodeterminazione. Tuttavia, ogni tentativo di eludere la questione ha portato a sopraffazioni, guerre e massacri. Ogni tentativo di eludere la questione ha portato alla radicalizzazione degli scontri politici dal momento che, anche a livello regionale, mette in gioco quel potente principio di legittimità che è la giustizia. Ma senza giustizia, che possa apparire quantomeno ragionevole a chi è coinvolto, non c’è pace. Senza pace e giustizia non c’è stabilità né per l’Asia occidentale né per il Mediterraneo di cui facciamo parte. Si tratta di connessioni tanto fondate quanto offuscate dalla “nebbia della guerra”.
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