Può piacere o meno, ma che la discussione attorno al referendum abbia assunto fin dalla sua fase iniziale i toni di un confronto, in qualche modo autodistruttivo, tra i vari segmenti delle élite, è sotto gli occhi di tutti. Se molti politici tendono a litigare agitando con fare non sempre avveduto concetti importanti ma assai delicati come governabilità e responsabilità, gli opinion maker fanno eco con toni anche più grevi. I protagonisti dei social media, e anche il residuo manipolo di praticanti dell’antico ma ancora in auge wrestling televisivo completano il quadro, alimentando di fatto la patologia autodistruttiva della nostra classe dirigente. Tale azione si appoggia all’uso di strumenti distribuiti in egual misura tra i competitori, sia pure con dosaggi diversi: chi insiste sulla contrapposizione tra vecchio e nuovo, chi continua a puntare sull’irrisione sistematica o sulla presunta inadeguatezza culturale degli avversari, chi ricorre a espressioni popolari per solleticare gli istinti più tipici della mentalità populista, come la connaturata sfiducia nella capacità riformatrice dei «politici di professione».
Che le élite politiche italiane siano un disastro lo diciamo da un po’. E non è neppure una novità che le campagne elettorali siano spesso un disastro. Se pensiamo a una campagna come quella appena chiusa per l’elezione del presidente negli Stati Uniti, incentrata a lungo sugli scandali e sulle inadeguatezze dei candidati, se non sulle pratiche loro, dei loro parenti e dei loro amici, non sembriamo messi poi troppo male: grazie al buon senso di molti – inclusi molti amici del Mulino – una parte della discussione rimane sul merito della riforma e comunque su valutazioni politiche complessive informate e ponderate.
Tuttavia, si può e si deve fare di più quando parliamo di Costituzione. La classe politica, intanto, deve smettere di guardarsi allo specchio e uscire dalla palude delle bassezze, per non fare la figura di un insieme di free rider che restituiscono al cittadino la responsabilità di scelte complesse e tecniche senza nemmeno informarlo doverosamente sulle proposte.
Ma ancor più dannosa è l’auto-celebrazione degli esponenti dell’élite socio-culturale i quali, pur nel tentativo lodevole di dare un contributo alla scelta pubblica, finiscono per mettere in ridicolo con le proprie approssimazioni anche i progetti della propria parte politica. Roberto Escobar ha evidenziato la contraddizione di una comunicazione basata sul ticket politica-società civile, dove la società civile, rappresentata dal difensore del brand costituzionale in tempi berlusconiani, ruba la scena anche al riformatore, paventando gli scenari più foschi in caso di fallimento della riforma. Mi chiedo se Benigni non avesse dovuto prefigurare alcune delle implicazioni che discendono da questo operato. Così come mi chiedo se alla fine non sia imbarazzante per uno storico dell’arte autorevole come Montanari costruire uno spot elettorale leggendo in un’opera d’arte l’immagine della ribellione nei confronti di una leadership telecomandata dalla finanza internazionale.
Insomma, quando la comunicazione scivola su questo piano, viene il sospetto che anche l'autonomia di giudizio dell’intellettuale sia entrata in riserva. Invece di una «visione» da prestare alla propria parte politica ne esce fuori un ulteriore messaggio personalizzato al proprio piccolo popolo di follower.
Mi si dirà che in tempi di democrazia senza partiti è di questo che si ciba l’opinione pubblica. Ok. Tuttavia, parlando di Costituzione e di referendum, un lavoro intellettuale che reitera la mera partigianeria, senza dare agli elettori un minimo elemento per fugare i loro dubbi, non mi pare un grande aiuto. Non sarebbe meglio spendere queste ultime settimane di campagna ad ascoltare chi ha davvero qualcosa da dire nel merito? Sarebbe possibile inserire negli spiegoni televisivi gli elementi descrittivi alla base delle decisioni sulle quali dobbiamo esprimerci, magari partendo dal funzionamento attuale del bicameralismo, oppure introducendo qualche elemento oggettivo di analisi comparata? Inoltre, sarebbe auspicabile rinunciare alla logica del «ring» e ai contradditori più inutili, per lasciare posto a illustrazioni sinottiche sui pro e i contro, commentate ovviamente dai politici e da esperti con capacità dissertative adeguate.
Con una tale strumentazione, e con la certezza che si tratta di un voto su una proposta di manutenzione costituzionale (che possiamo naturalmente valutare nei modi più diversi), forse focalizzeremo meglio la vera partita che stiamo giocando. A seconda del livello di interesse e delle competenze, potremo valutare in coscienza il merito politico della riforma, e produrre un qualche «spacchettamento», necessario per calcolare la somma algebrica di migliorie e peggioramenti. Ci sentiremo forse un po’ meno decisivi per le sorti del Paese, rispetto a quanto ci hanno detto molti assertori del «sì» e del «no», ma alleggeriti nel nostro stato d’animo e coscienti che a noi adesso spetta fare questo e solo questo. Saremo inoltre meno sensibili al ciarpame mediatico e più interessati a imparare qualcosa sulla nostra costituzione, apprezzando le analisi approfondite come quelli ospitate dal «Mulino». Nel contempo, ci impratichiremo con un esercizio, davvero utile, di coinvolgimento civico.
Spostare il dibattito dalla psicopatologia delle élite alla pedagogia costituzionale sarebbe un primo risultato importante del referendum.
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