Il sistema politico romano ha consumato due fratture di classi dirigenti in poco più di vent’anni. In entrambi i casi in seguito alle iniziative della magistratura. Nel 1993, dopo Tangentopoli, proprio a Roma nasce il bipolarismo della Seconda Repubblica, con la famosa dichiarazione di Berlusconi a sostegno di Fini nel ballottaggio con Rutelli. Nel 2016, dopo la vicenda di Mafia Capitale, il Movimento 5 Stelle conquista il Campidoglio surclassando i vecchi partiti. Ma tra la prima e la seconda frattura ci sono tre importanti differenze.

La svolta del ’93 viene alimentata da un clima positivo per l’ingresso in Europa e per la globalizzazione irenica, mentre oggi l’orizzonte nazionale e internazionale è funestato da nubi tempestose. Nella prima applicazione dell’elezione diretta del sindaco, il rinnovamento della classe politica è sostenuto da una formidabile partecipazione popolare, mentre nell’ultimo decennio si contrae drasticamente il corpo elettorale. Circa 800 mila romani abbandonano i seggi, un po’ come se una città grande quanto Torino decidesse di non votare più. La partecipazione per l’elezione dei due ultimi sindaci scende sotto la soglia della maggioranza assoluta, rispettivamente al 44% nel 2013 e al 49% nel 2016. Non è solo una drastica diminuzione rispetto al livello toccato nel 1993 (80%); è un elettorato diverso da allora, come se appartenesse a una città più piccola. Si fa un gran parlare di popolo, proprio nel tempo del popolo perduto.

Infine, negli anni Novanta è ancora viva l’illusione che basti riformare le istituzioni per migliorare la classe politica. In effetti l’elezione diretta del sindaco all’inizio produce ottimi risultati, ma alla lunga non mantiene le promesse: la personalizzazione non funziona quando il primo cittadino è eletto da una minoranza del 20-30% di voti effettivi; la stabilità è minata da frenetici cambiamenti di assessori e manager, in molti casi inadeguati, talvolta scelti dai sindaci con l’assillo di evitare personalità di rilievo che possano oscurare la loro immagine; la visione di lungo periodo è sostituita da annunci improvvisati a causa del sovraccarico mediatico e dell’abbassamento di qualità degli amministratori.

Il mito delle riforme istituzionali è durato fino al referendum costituzionale del 2016, ma proprio la legge elettorale comunale, forse la riforma meglio riuscita, dimostra che non è l’ordinamento a migliorare la politica, anzi è vero il contrario: la cattiva politica è in grado di degradare anche i buoni ordinamenti. Tuttavia, i miti sono importanti in politica. L’elezione diretta allora rese credibile il rinnovamento. Oggi, non abbiamo più neppure la forza di quella illusione.

 

[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 2/19, pp. 206-214, è acquistabile qui]