C’è un nesso lineare e diretto tra l’esplosione vitale della protesta studentesca del maggio 1968 e il tragico evento della primavera del 1978, il sequestro e l’assassinio del leader democristiano Aldo Moro? La festa dell’innovazione e dell’immaginazione al potere è precipitata in un imbuto di assassinii, violenza cieca e autodistruzione? In estrema sintesi, è questa una lettura molto diffusa degli anni Settanta italiani.

Vorrei argomentare in una direzione un po’ diversa. Difficile negare che un certo nesso esista, ma non è né diretto, né tanto meno scontato. Gli anni Settanta non sono stati solo gli «anni di piombo» della facile simbologia presa dal titolo di un fortunato film di Margarethe von Trotta. Il nesso tra questi avvenimenti si è piuttosto dipanato in una storia complessa, che ha attraversato il decennio con esiti molto diversi e parecchie possibilità alternative.

La figura di Aldo Moro è stata al centro di questo percorso non solo perché ha ricoperto suo malgrado il ruolo di vittima nell’ultimo capitolo di questa vicenda. Ma anche perché aveva intravisto prima e più di altri la complessità del punto di partenza di questa storia.

Niente era ipoteticamente più lontano dalla sensibilità di Moro degli eventi della contestazione del Sessantotto. Egli era un politico dalle molte caratteristiche tradizionali, non ostentate ma senz’altro introiettate e consapevolmente vissute: la sua figura dinoccolata e austera rappresentava un mondo politico tanto dignitoso quanto apparentemente statico. Che odorava di uscita faticosa da un’infanzia di limitazioni, da una società meridionale provata dall’eredità della povertà secolare. Il suo linguaggio non era oscuro come spesso si dice: esprimeva una lucida e pedagogica volontà di guida della crescita delle masse popolari. Alludeva a un’occasione storica: volgere l’indubbia crescita sociale ed economica dell’imprevisto «miracolo italiano» verso la realizzazione dello Stato democratico-sociale preconizzato nella prima parte della Costituzione del 1948.

Moro era peraltro un uomo di potere. Nel 1968 veniva da quasi cinque anni di ininterrotta presidenza del Consiglio, durante i quali aveva gestito un accordo con i socialisti nel percorso di centrosinistra, che era stato il frutto faticoso della sua capacità mediatoria e strategica nei quattro precedenti anni da segretario del maggior partito italiano, del partito-sistema, la Democrazia cristiana. La sua guida del governo (alla luce di un’indagine storica che si è di molto arricchita oggi ne siamo più coscienti) aveva scontato resistenze e opposizioni aperte, ma anche (forse soprattutto) ambigue e sotterranee. Egli era stato sfiancato da una dura prova di resistenza. Aveva tenuto il punto, forse con eccesso di prudenza e di continuismo, per non far saltare i precari equilibri di una democrazia condizionata dalla sua giovinezza (siamo ad appena due decenni dalla chiusura dei lavori della Costituente) e dall’eredità inquietante dell’autoritarismo del ventennio. Molti allora – e qualcuno ancora oggi – pensano al suo ruolo come affossatore delle riforme sperate dal centrosinistra, quando invece era stato colui che aveva tentato, quasi isolato, di salvarne le condizioni di possibilità, a rischio drammatico di estinzione.

Ad ogni modo, si era trattato appunto di un ruolo tutto condotto all’interno dell’ipotesi di una lenta e ordinata evoluzione del sistema. Niente di meno rivoluzionario di una modernizzazione prudente, quanto decisiva, degli equilibri di un Paese statico e fragile. Niente di meno in sintonia con gli umori della contestazione antiautoritaria, con la sua generalizzante identificazione di un «sistema» ingessato da smantellare; niente di più lontano dalla spontaneità come legge, dall’assemblea autoconvocata come metodo.

 

[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 2/18, pp. 211-217, è acquistabile qui]