La Primavera di Dakar. Il Senegal è tradizionalmente considerato il Paese più stabile e democratico – e pertanto partner occidentale ineludibile – nella turbolenta Africa dell’Ovest. Tuttavia i recenti episodi di rivolte, saccheggi, e durissime repressioni, all’ombra dei quali si profilano i grandi temi della politica globale, rischiano di sconfessare questa reputazione. Il 16 giugno il Consiglio dei ministri ha approvato un progetto di legge destinato a modificare la Costituzione in maniera da permettere al presidente, Abdoulaye Wade, di ricandidarsi per un terzo mandato alle elezioni previste nel febbraio 2012. La legge introduce inoltre la carica di vice-presidente, e prevede l’elezione automatica sin dal primo turno qualora un solo candidato superi la soglia del 25% delle preferenze. Tale riforma desta preoccupazioni sia per gli allarmanti precedenti a cui può essere riferita (l’ultimo esempio è quello del Niger di Tandja, poi confluito in un colpo di stato militare) sia per il fatto che Wade, a 86 anni, sembra da tempo intenzionato a preparare la successione dinastica in favore del figlio Karim Wade (poco amato dall’opinione pubblica, e ripetutamente sconfitto nella corsa a diverse cariche pubbliche). In ciò è confortato dall’esempio dei colleghi africani Omar e Ali Bongo, presidenti dinastici del Gabon con l’avvallo della Francia. Ma la società civile senegalese, la cui forza politica è testimoniata dal successo del Forum sociale mondiale, tenutosi quest’anno a Dakar, ha reagito con violenza. Il 23 giugno scorso una larga alleanza di organizzazioni giovanili, sindacati, stampa indipendente e –minoritariamente– partiti d’opposizione, denominata Movimento del 23 Giugno, si è radunata di fronte al Parlamento, per impedire fisicamente ai deputati di recarsi a votare la legge. La polizia ha reagito brutalmente, ferendo un centinaio di manifestanti. Membri dell’opposizione, giornalisti e difensori dei diritti umani sono stati oggetto di agguati squadristi (riconducibili al partito stesso di Wade, secondo la stampa locale). Il progetto di legge è stato ritirato. Ma la tensione sociale è rimasta altissima: i giovani, più del 60% della popolazione, soffrono di una disoccupazione drammatica, la cui unica via d’uscita sembra l’emigrazione, resa sempre meno praticabile dalle restrittive leggi europee. Contemporaneamente l’incapacità del governo di risolvere il problema dell’approviggionamento di acqua e corrente elettrica paralizza l’attività economica e contribuisce al degrado delle condizioni di vita nelle periferie del paese. Il 27 giugno scorso, esasperata dai continui black out la rabbia della popolazione è nuovamente esplosa: barricate, blocchi stradali, assalti alle residenze di esponenti del governo e saccheggi delle sedi della compagnia dell’elettricità sono stati segnalati in tutto il paese. Solo l’intervento dell’esercito ha permesso di riportare l’ordine.
La continuità dei due episodi è evidente, sia per quanto riguarda i protagonisti (i giovani, infiammati dal rap “engagé” del gruppo Y en a marre, con modalità analoghe a quelle della Primavera araba), sia per quanto riguarda gli obiettivi: Karim Wade è infatti il ministro dell’Energia (oltre che di Trasporti, Infrastrutture e Cooperazione). La domanda sociale si salda qui inequivocabilmente alla domanda politica. Wade, screditato all’interno del Paese, ha spostato la sfida della legittimazione sul piano internazionale. Nelle interviste rilasciate ai media francesi, la retorica catastrofista del “dopo di me il diluvio” evoca significativamente lo spettro della Costa d’Avorio, qualora la sua successione venisse impedita. I servizi segreti americani e francesi si allarmano della possibilità che l’instabilità sociale possa favorire la radicalizzazione politica dell’islam locale e la penetrazione dell’Iran e di Al-Qaeda nel paese (già segnalata nel recente episodio dell’invio di armi iraniane ai ribelli della Casamance). In questo complicato intrigo si inserisce come merce di scambio Hissène Habré, l’ex dittatore del Ciad in esilio in Senegal da 20 anni, definito da Human Rights Watch “il Pinochet Africano”. Wade ha sempre rifiutato di estradare o di giudicare Habré: sorprendentemente, proprio nei giorni successivi ai fatti citati, ha cambiato idea. Robert Bourgi, faccendiere al centro degli occulti traffici politico-economici che legano la Francia alle ex-colonie, è stato il mediatore dell’operazione per conto di Sarkozy. Resta da capire cosa Sarkozy abbia promesso a Wade in cambio di questa cortesia.
Riproduzione riservata