Oggi si chiamano serie televisive, nel secolo scorso si chiamavano sceneggiati. Ma cambia poco. Si trattava e si tratta di una storia, che usa il medium delle immagini in movimento e del sonoro e che si sviluppa, a puntate, a partire da un’idea di fondo, un’idea fissa forte, che resta come battistrada fondamentale e sulla quale poi se ne innestano altre, a costituire l’intreccio narrativo. Le saghe e i cicli poetici delle tradizioni orali non erano poi tanto diverse, se si fa eccezione rispetto al medium con cui venivano veicolate. Certo, per carità, abbiamo tutti imparato a ripetere, come dei pappagalli, che il medium è il messaggio, ma resto dell’idea che il senso profondo dell’homo sapiens e dei suoi prodotti sia il medesimo, in ogni epoca.
Era il 1979, lo ricordo bene perché quella serie mi piaceva tanto e mi è rimasta impressa fino a oggi. Il titolo era I sopravvissuti — Survivors nell’edizione originale della Bbc — a firma di Terry Nation. In Inghilterra era stata trasmessa qualche anno prima, nel 1975. Quando arrivò da noi ebbe un notevole successo. Ne parlavamo a scuola e tutti ne eravamo affascinati. Vista oggi (lo si trova facilmente su YouTube), non posso evitare di riconoscere che era colma di luoghi comuni. Gli stereotipi culturali occidentali ci sono tutti a cominciare da uno dei più potenti, l’idea di palingenesi. Senza contare poi un impianto scenico fondamentalmente naïf.
La storia, in breve, è quella di una pandemia che lascia vivi solo pochissimi individui su tutto il pianeta. A giudicare da quello che si vede dai fotogrammi della sigla di testa, un virus, per colpa di un incidente in un laboratorio dell’estremo Oriente, si propaga per il mondo. Si vede un individuo con gli occhi a mandorla e coi paramenti del ricercatore armeggiare con un pallone da laboratorio, che gli cade dalle mani, così che il vetro si infrange disperdendo il liquido biancastro che conteneva. La sequenza è resa inquietante oltre che dal contenuto visivo (nell’immaginario collettivo, la ricerca biochimica è ancora vissuta, a livello più o meno inconscio, come qualcosa di non troppo distante dalla stregoneria dei secoli passati) anche dalla linea melodica della musica, che procede con un incalzante ostinato costituito da un alternarsi continuo di due note, distanti un semitono l’una dall’altra. Nelle scene successive si vede nuovamente il ricercatore in abiti civili e si intuisce, grazie all’immagine di un aereo e a quella di un luogo che assomiglia a un aeroporto, che si è spostato dal suo Paese. Ma ecco che si porta una mano alla tempia, evidentemente sta male. Cade. La sequenza di timbri, su una serie di passaporti, delle aree di controllo dei visti in ingresso di diverse capitali mondiali dice il resto: il contagio si è diffuso sull’intero pianeta. Inizia così la serie, che mostra come un’ecatombe, nel giro di pochissimo, si abbatte per ogni dove annientando la quasi totalità della popolazione mondiale. La conseguenza immediata è che ogni istituzione svanisce. Economia, politica, istruzione, media, tutto si dissolve come un sogno appena ci si è destati. E inizia l’incubo.
Avevo undici anni quando lo vidi per la prima volta e una delle cose che mi intrigavano era proprio questa idea che in una situazione come quella la scuola sarebbe scomparsa. Non avevo, come è nella natura della maggior parte dei ragazzini, un grande trasporto emotivo per la scuola e mai avrei pensato da adulto di fare l’insegnante.
Dicevo di una certa ingenuità di fondo della serie. Prima di tutto, a guardare oggi una puntata, quello che assume un tono quasi ridicolo sono i costumi e il trucco. Le protagoniste hanno il taglio dei capelli perfetto e la messa in piega sempre in ordine. Per non parlare, appunto, dei vestiti: sempre puliti, perfettamente stirati e del tutto in linea coi dettami della moda di allora. Ma la naïveté formale è solo uno dei volti di una sancta simplicitas, che concerne, invece, i contenuti di questa serie, ritornata così attuale.
Il problema di fondo è costituito dalle famose robinsonate di marxiana memoria: questa serie ne è piena, come ne è piena la nostra cultura, soprattutto quando fa riferimento al dato come rilevazione di un’immediatezza. Così, il passo verso una “santificazione” dell’Ausgangspunkt (con tutto quello che ne segue in termini di mitologizzazione dell’origine) è più che breve.
Ma spostiamoci di lato, proprio per metterci al riparo da possibili cadute ideologiche e tentare, così, di osservare la realtà nel modo più sereno e lucido possibile, iniziando da un esame anamnestico, per così dire, svolto su noi stessi. Su questa base, a partire da quanto è accaduto in questi ultimi tre mesi, la prima sensazione che ricavo riguarda una confusione di idee davvero notevole. E non credo di evidenziare un caso unicamente personale. La cosa si complica se si tiene conto del mio livello di istruzione, che non è basso. Voglio dire che — tra le diverse tipologie messe a punto dalle indagini sulle capacità di apprendimento degli adulti — non sono nella condizione di chi, tra i miei connazionali, leggendo un periodo pur semplice come “il gatto miagola, perché vorrebbe bere il latte” non ne decifra il significato. Sono invece tra coloro che riesce a leggere e comprendere (quasi sempre) un testo anche complesso: da un editoriale di un periodico a una trattazione saggistica di ambito umanistico. Eppure, non posso che registrare che su questa epidemia tuttora in atto nel mondo ho, appunto, le idee molto confuse. A cominciare da quelle che mi vengono dalle dichiarazioni dei cosiddetti “esperti” (virologi, immunologi, clinici in generale), spesso (almeno per un ignorante in materia come me), assolutamente in contraddizione tra loro. Per non parlare dei “dati”, che, non solo andrebbero sempre incrociati tra loro (serve a poco sapere quanti sono i morti quotidianamente, se non si conosce, per esempio, l’esatto numero dei contagiati), ma che in sé e per sé non dicono assolutamente nulla. Hanno senso solo e sempre a partire da una visione preliminare delle cose che ne giustifichi un’analisi e un determinato utilizzo. Nell’insieme, il quadro è sconfortante.
Perché, in effetti, come è stato evidenziato da un importante storico della medicina, Gilberto Corbellini, questo, che è causa dell’attuale epidemia, “è stato il virus più mediatizzato della storia della medicina”, notando poi — e a giudizio di chi scrive in maniera del tutto condivisibile — che la gestione di questa emergenza sanitaria, per esempio con il rituale serale dei dati sulle vittime, ha mostrato toni che hanno oscillato tra il paternalistico e il terroristico. Penso, personalmente, anche agli atteggiamenti, spesso sopra le righe, di alcuni amministratori locali, con le loro intemerate davanti alle telecamere di un computer e diffuse poi sui social network. E appare evidente a chiunque che si è trattato di scene(ggiate) messe in atto allo scopo di ottenere consenso, piuttosto che di qualcosa di effettivamente necessario ed efficace per la gestione dell’emergenza sanitaria.
Prima evocavo il problema dell’analfabetismo funzionale, che vedo connesso a tutto quanto accaduto in questi ultimi mesi e, purtroppo, ancora accadrà. Lo è, per esempio, perché — e, questo sì, è un dato assolutamente evidente — il reale problema che questa epidemia ha fatto emergere nel nostro Paese è quello di un Servizio sanitario nazionale inadeguato a gestire situazioni un po’ più complesse come quelle che si sono verificate nei mesi scorsi. Il taglio della spesa pubblica, si sa, che accompagna ogni azione politica da decenni, interessa sempre settori come la sanità o l’istruzione. Se non si investe in questi ambiti che, invece, si pensa di gestire secondo logiche aziendali in ossequio al più classico dei principi liberisti (più mercato e meno Stato), si avrà come effetto la mercificazione della malattia e dell’ignoranza.
Così, si tenderà, da parte delle strutture sanitarie ed educative, per esempio, ad accaparrarsi pazienti e discenti come un’azienda si approvvigiona di merci e attira acquirenti. Forse, per cominciare a ipotizzare un futuro diverso dal passato anche solo recente, dovremmo cominciare a ripensare quel senso fondamentale del nostro essere comunità, partendo proprio dal modo con cui ci poniamo di fronte alla gestione di noi stessi, della salute del nostro corpo e del nostro spirito. Sanità e istruzione dovrebbero dunque essere diverse da quello che sono, invertendo una tendenza intrapresa da decenni. Ma per fare questo occorrerebbe coscienza critica e senso della realtà, che difficilmente potranno mai emergere in una situazione come quella attuale.
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