Periodicamente fatti eclatanti di cronaca portano all’attenzione dell’opinione pubblica situazioni in cui persone con disagio psichico diventano socialmente pericolose: si determina così un dibattito emotivo che oscilla tra la paura e le proposte di esclusione e reclusione delle persone affette da questo tipo di disagio (sino al tradizionale «buttiamo la chiave» dopo averli rinchiusi).
Con la legge del 30 maggio 2014, che ha decretato il superamento dei cosiddetti ospedali psichiatrici giudiziari, sembrava si fosse fatto un passo avanti significativo. Ne abbiamo parlato con Ugo Fornari, già professore ordinario di Psicopatologia forense all’Università di Torino e autore di numerose pubblicazioni, tra cui il Trattato di psichiatria forense (Utet, 2021).
«Per inquadrare bene la situazione attuale – esordisce il professore – bisogna partire dal fatto che nell’Ottocento e per buona parte del Novecento il trattamento della follia è rientrato quasi esclusivamente nella dimensione del controllo sociale, attraverso l’espulsione dal consorzio civile delle classi pericolose, identificate fin dai secoli precedenti nel sottoproletariato, nei disoccupati, nei vagabondi, nei mendicanti, negli immigrati, nei nullatenenti e nei pazzi, categoria non ben definita di diversi. Ecco che allora la storia del manicomio civile si identifica con un certo modo di concepire la psichiatria, come una forma di esercizio particolare del controllo sociale».
FABRIZIO FLORIS, PINO LUCIANO: Come si è manifestata nella pratica questa idea?
UGO FORNARI Nel 1876 venne inaugurato il primo «manicomio criminale» italiano, nato come Sezione per maniaci presso la «Casa penale per invalidi» di Aversa: aveva lo scopo di ospitare condannati «impazziti in carcere», al fine di evitare «conseguenze dispiacevoli per l’ordine, la disciplina, lo stato igienico e la sicurezza interna delle Case penali del Regno» (circolare del ministero dell’Interno inoltrata ai direttori dei manicomi, 1872). Dopo quello di Aversa nacquero Montelupo Fiorentino (Fi), nel 1886; Reggio Emilia, nel 1892; Napoli, nel 1922; Barcellona Pozzo di Gotto (Me), nel 1925; e Pozzuoli, nel 1955 (che chiuderà già nel 1974).
Tuttavia, nel codice penale Zanardelli del 1889 non vi è alcun riferimento al manicomio criminale, né a quello civile (se non indirettamente). Nei diversi progetti di legge che precedono il codice Zanardelli si trovano riferimenti ai manicomi criminali in prevalenza predicati come ricoveri per soggetti «impazziti» durante l’istruttoria o durante la pena; coloro già «pazzi» al momento della commissione del reato avrebbero dovuto essere rinchiusi in manicomi ordinari. È il Regio decreto 1.2.1891, n. 260 (Regolamento generale degli stabilimenti penitenziari e dei riformatori), che sancisce ufficialmente la possibilità di internare nel manicomio criminale, oltre ai delinquenti «impazziti» in carcere, anche coloro che sono stati prosciolti, perché «folli» al momento del fatto, nonché i giudicabili osservandi.
Da allora a oggi molta acqua è passata sotto i ponti, ma resta anche nel codice penale attualmente in vigore l’imputabilità e la pericolosità sociale dell’autore di reato. In maniera «innovativa» si era mosso il governo Monti attraverso il cosiddetto decreto «svuota-carceri» (o salva-carceri) che aveva previsto il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari entro il 31.3.2013, e che dopo varie lungaggini è diventato legge nel 2014 (quella attuale)».
FF, PL È stato solo un cambio di nome o ha rappresentato un cambiamento sostanziale?
UF Devo dire che già il precedente cambiamento del 1975, quando si è passati dai manicomi giudiziari agli ospedali psichiatrici giudiziari, non ha portato importanti indicazioni innovative. Adesso si chiamano Rems (Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza) e sono primariamente strutture psichiatriche di sicurezza detentiva con valenze secondarie di tipo sanitario.
Eppure il diritto alla salute costituzionalmente garantito non può vedere esclusi quei malati in cui il reato comporta una subordinazione delle istanze terapeutiche a quelle custodialistiche.
Il diritto alla salute costituzionalmente garantito non può vedere esclusi quei malati in cui il reato comporta una subordinazione delle istanze terapeutiche a quelle custodialistiche
Ma la Corte Costituzionale, con sentenza n. 22 del 16 dicembre 2021 (Dep. 27 gennaio 2022), ha precisato che le Rems «restano nell’ordinamento italiano una misura di sicurezza, disposta dal giudice penale non solo a scopo terapeutico ma fondamentalmente per contenere la pericolosità sociale di una persona che ha commesso un reato».
FF, PL Invece lei cosa propone?
UF Primo, operare a monte della legge 81/2014 e sottoporre a radicale revisione critica le nozioni di infermità di mente e di pericolosità sociale, che sarebbero in tal modo ricomprese tra le necessità di assicurare «un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza» (Corte Costituzionale, sentenza n. 22/2022), essendo la Rems un punto di arrivo, non di partenza dei provvedimenti giudiziari in tema di internamento dell’infermo di mente socialmente pericoloso.
Secondo, ridurre il ricorso ai troppi accertamenti peritali che complicano solo il lavoro dei giudici e del sistema della giustizia, per l’eccessivo ampliamento da parte dei periti dell’uso del vizio di mente e degli errati pronunciamenti in tema di pericolosità sociale con le conseguenti, eccessive ordinanze di internamenti in Rems, che la legge vuole circoscritti e ben delimitati nel tempo.
Infine, riconsiderare la perizia psichiatrica disposta dal giudice, che da rapporto statico orientato a fini esclusivamente giudiziari (la retribuzione penale e la misura di sicurezza) deve implementarsi in maniera dinamica con valenze a finalità terapeutiche, secondo il dettato costituzionale che stabilisce essere quello delle cure un diritto inalienabile di tutti i cittadini, autori di reati compresi.
Solo integrando culture, linguaggi, metodi, strategie diversificati e attualmente in opposizione si potrà tentare di portare avanti una riforma di cui la legge 81/2014 ha solo posto le premesse, per molti versi confusive e contraddittorie e il cui percorso, in questi anni di applicazione, è stato gravemente compromesso da provvedimenti impropri, quando non errati, a loro volta conseguenza di una mancata riforma del codice penale negli articoli specifici che riguardano i capitoli dell’imputabilità e della pericolosità sociale.
Solo integrando culture, linguaggi, metodi, strategie diversificati e attualmente in opposizione si potrà tentare di portare avanti una riforma di cui la legge 81/2014 ha solo posto le premesse
Il concetto di pericolosità sociale, in particolare, nonostante gli sforzi di riempirne la base empirica, resta estremamente manipolabile ed evanescente: se pure si continua a sostenere che si possa e si debba curare la pericolosità sociale, permane negli operatori della salute mentale la persistenza di una mentalità e di pratiche finalizzate più al controllo che alla cura.
Non è facile trovare una sintesi tra controllo e cura, tra pericolosità sociale psichiatrica e criminale, tra cambiamento ed etichettature, tra le esigenze di sicurezza pubblica e la cura del malato, tra modelli d’intervento teorici e la frontiera quotidiana dei servizi di salute mentale, che devono operare anche nella realtà del giudiziario e non solo più del civile. Ma una strada bisognerà pur trovarla.
Riproduzione riservata