1896-2016. Centovent’anni separano queste due date. Quella della prima Olimpiade moderna disputata ad Atene e quella prossima, che si svolgerà in Brasile nel mese di agosto. Non c’è chi non conosca il nome dell’inventore dei Giochi, il barone francese Pierre de Coubertin, che alla fine dell’Ottocento nello sport vede il mezzo utile e necessario a restituire vigore alla patria uscita sconfitta e umiliata dalle armate prussiane nella guerra del 1870-71. Forza militare, attitudine a comandare e a sostenere lo slancio espansivo di una grande nazione possono essere garantite dalle virtù sportive – adeguatamente esercitate – dei suoi figli. Il valore del corpo e della fisicità, dopo secoli di oscuramento religioso, torna in primo piano al seguito di positivismo e darwinismo sociale.
Il pragmatismo di questa ispirazione lascia presto il posto alla celebrazione della funzione civilizzatrice, pacificatrice, educativa dei costumi, dei caratteri, delle relazioni da parte dello sport. Ed ecco allora il mito di Olimpia, della kaloskagathìa, della periodicità di un confronto internazionale che nell’antica Grecia induceva addirittura alla sospensione delle guerre e a contare il tempo di quattro in quattro anni. Gli studi classici e l’ammirazione per quel mondo, così come la passione per l’archeologia sono lo sfondo culturale nel quale si inscrive la nascita dei moderni Giochi.
Oggi – dopo più di un secolo – in un mondo globalizzato lo sport è anch’esso un fenomeno globale. Forse il più globale. Poche altre cose rivelano la stessa capacità di coinvolgimento, di diffusione, di durata. 120 anni sono molti e, pur tra alti e bassi, configurano qualcosa che ha i tratti indiscutibili di importante istituzione. Le Olimpiadi, grazie allo sviluppo dei media, garantiscono una visibilità che è istantanea in ogni angolo del pianeta. Alla cerimonia di apertura sfilano ormai più rappresentative nazionali di quanti non siano gli esponenti degli Stati che siedono all’Assemblea generale dell’Onu. Se nel 1896, ad Atene, partecipano 245 atleti (nessuna donna) per 9 discipline, a Londra nel 2012 si registrano 10.568 atleti (4.676 donne) per 37 discipline e 302 gare in programma.
Se 120 anni fa lo sport è praticato (poco) soltanto dal cosiddetto mondo occidentale o sviluppato, oggi coinvolge tutti e cinque i continenti, dando piena attuazione pratica al simbolismo dei cinque cerchi colorati della bandiera olimpica. Così come sempre di più i dominatori nelle varie discipline non sono soltanto americani o europei ma anche africani (a partire dall’etiope Abebe Bikila a Roma 1960) e asiatici.
Dalla Berlino nazista del 1936 l’Olimpiade è diventata una formidabile vetrina per lo Stato che la organizza. Il rischio del disastro economico che segue la fine dei Giochi (Montreal 1976 e Atene 2004 i casi più clamorosi) non frena la corsa degli Stati ad accaparrarsene l’allestimento e a superare in grandiosità le edizioni precedenti. In quei 15-20 giorni di svolgimento delle gare, infatti, lo Stato che ospita l’evento si trova al centro dell’attenzione mondiale, impegnato a guadagnarsi sul campo rispetto e considerazione internazionali dando prova delle proprie capacità e risorse. Materiali e non solo. Quelle necessarie alla buona riuscita dell’impresa.
Ma anche sul piano interno le implicazioni sono importanti. La grande competizione sportiva, infatti, è strumento di costruzione di un sentimento di identità nazionale e di orgogliosa appartenenza da far crescere attorno ai protagonisti dei maggiori successi e al riconoscimento generale del buon lavoro svolto. Senza lo sport in quali e quante altre occasioni avremmo l’opportunità di ascoltare l’inno nazionale (nostro, ma anche di altri Paesi) o di vedere sventolare la bandiera (nostra, ma anche di altri Paesi)? Magari commuovendoci. Lo sport è presenza ingombrante del nostro universo culturale, riferimento ineludibile di attitudini e comportamenti, espressione visibile del nostro immaginario collettivo. Siamo cioè, da tempo, all'estensione dello sport fuori dello sport o agli usi non sportivi dello sport di cui ha parlato Alain Ehrenberg. Alla sua onnipresenza nella nostra vita quotidiana. E al culto della performance personale in ogni ambito – ludico o professionale – sul modello della competizione sportiva.
Oggi, come ciascuno può ben vedere, le icone nelle quali il nostro tempo si identifica appartengono perlopiù alla fisicità. Basta camminare per le nostre città per rendersene conto: i saloni di bellezza, i negozi di parrucchiere, di prodotti per la cura del corpo, le palestre per il fitness sono gli unici a non conoscere crisi. Gli eroi sportivi, ormai, non sono più circoscritti al rispettivo ambito di provenienza. Essi riassumono in sé e nelle imprese che compiono le caratteristiche della personalità eminente, non soltanto del campione o del divo. Si sono fatti largo nell’olimpo dei grandi della Terra. Di coloro capaci di segnare profondamente il loro tempo. Di coloro che – come gli esploratori, gli scienziati, gli artisti, i politici, i condottieri, i predicatori, i santi ecc. – hanno occupato e occupano la memoria collettiva di un Paese, ne rispecchiano e interpretano valori e attese, ne costituiscono stabili riferimenti culturali. Modelli per tutti. Ai quali viene perciò tributato un vero culto, perché riconosciuti portatori di meriti e virtù straordinarie, in grado di suggestionare, di suscitare spirito di emulazione, sentimenti di gratitudine e di orgoglio.
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