Il 20 febbraio scorso, su proposta del presidente del Consiglio dei ministri e del ministro dell’Interno, è stato approvato il decreto–legge n. 14, contenente disposizioni urgenti a tutela della sicurezza delle città. Pur trattandosi di un auspicato inquadramento normativo al principio/dovere di cooperazione tra Stato, Regioni e Comuni in tema di sicurezza integrata, come richiesto dalla Costituzione, il decreto ha già suscitato perplessità e non irrilevanti polemiche. Il provvedimento, in primo luogo, mira a realizzare un modello di governance integrato tra i diversi livelli di governo, attraverso la sottoscrizione di appositi accordi tra Stato e Regioni e l’introduzione di patti con gli enti locali.
In secondo luogo, propone un intervento preventivo incentrato sostanzialmente sull’apparato sanzionatorio amministrativo, prevedendo, tra l’altro, la possibilità di imporre il divieto di frequentazione di determinati pubblici esercizi ed aree urbane a soggetti condannati per reati di particolare allarme sociale, il c.d. “daspo urbano”.
In tale quadro la sicurezza urbana viene definita all’articolo 4, in maniera non dissimile da quanto previsto nel d.m. Interno del 5 agosto 2008, c.d. decreto Maroni, come «bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città, da perseguire anche attraverso una serie di interventi…», quali:
1) riqualificazione e recupero delle aree o dei siti più degradati;
2) eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale;
3) prevenzione della criminalità, in particolare di tipo predatorio;
4) promozione del rispetto della legalità;
5) affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile.
Nel testo del decreto si afferma – in maniera poco condivisibile - l’insistita idea di un ordine urbano fondato su criteri essenzialmente «estetici», il «decoro delle città», il «degrado», o soggettivo-emozionali, la «vivibilità» » (si veda l’interessante intervento di Carlo Ruga Riva).
La definizione in ogni caso è stata opportunamente inserita nel corpo della legge, e non più in regolamento come accadeva fino ad oggi, appunto con il Decreto Maroni. La scelta va inoltre nella direzione indicata dalla Corte costituzionale, che nel 2011 aveva dichiarato incostituzionale la disciplina delle ordinanze ordinarie, anche sul rilievo che la definizione di sicurezza urbana non era contenuta in legge. Una simile disciplina, sosteneva la Corte, era assolutamente inadeguata per fungere da presupposto di divieti e sanzioni, ritenuti conseguenze personali o patrimoniali ai sensi dell’articolo 23 della Costituzione.
In generale, non si può tuttavia non osservare che un efficace contrasto dei fenomeni di marginalità e illegalità diffusa che minacciano la sicurezza delle città richiederebbe, prima di fare ricorso agli strumenti di dissuasione rappresentati dalle sanzioni pecuniarie e dalle misure interdittive previste dal decreto, la realizzazione di una organica strategia di prevenzione. È sufficiente in questa sede richiamare le specifiche misure di prevenzione sociale, comunitaria e situazionale diffuse nelle più avanzate esperienze europee - Olanda, Francia, Inghilterra per citare i modelli di «nuova prevenzione» più noti a livello internazionale - con particolare riguardo per i soggetti a forte rischio di esclusione sociale.
In altre parole, la definizione prevista all’articolo 4 presuppone un ambiziosissimo progetto di Welfare, a cui si affiancano strumenti operativi di fatto inadeguati.
Appare evidente infatti la scarsa coerenza tra gli strumenti proposti, gli obiettivi richiamati nella relazione e la definizione di sicurezza urbana. È, per esempio, innegabile che ordinanze amministrative, patti per la sicurezza e «Daspo urbano» sono strumenti di controllo che assai poco hanno a che fare con la «coesione sociale». Meno che mai sono strumenti di una qualche utilità nella «eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale», obiettivo per il quale servono ben altre misure.
Solo per fare un esempio, basti ricordare che la prostituzione è stata affrontata con indagini e provvedimenti giudiziari legati alla disciplina antimafia. Non può certamente essere un problema che si risolve relegandolo alla categoria del decoro.
Analogamente, il commercio ambulante abusivo ha visto le Procure della Repubblica e le Forze dell’ordine impegnate per risalire la filiera di illegalità che porta sulla strada i prodotti in vendita, contraffatti o meno. L’approccio proposto dal provvedimento, che presuppone di affrontare tali problematiche complesse dalla parte della coda, appare orientato a un intervento più simbolico che potenzialmente efficace.
Tutti temi esemplificativi sui quali vengono, al contrario, visibilmente responsabilizzati gli enti locali e, per essi, il sindaco.
Il capo II del decreto-legge interviene in materia di sicurezza e decoro urbano delle città prevalentemente attraverso l’introduzione di misure di sanzione amministrativa.
L’articolo 8 infatti disciplina, con alcune modifiche al Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, il potere del sindaco di adottare ordinanze in materia di sicurezza, con particolare riferimento agli orari di vendita e di somministrazione di bevande alcoliche.
L’articolo 9 prevede l’adozione, sempre da parte del sindaco, di misure dirette a sanzionare le condotte che limitano la libera accessibilità e fruizione di infrastrutture ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico e delle relative pertinenze a cui può essere affiancato un ordine di allontanamento. L’allontanamento può essere disposto anche nei confronti di chi, in tali spazi, viene trovato in stato di ubriachezza, compie atti contrari alla pubblica decenza, o esercita il commercio abusivo.
Sostanzialmente, l’ordine di allontanamento imposto dal sindaco, quale autorità locale di pubblica sicurezza, sembra configurare una sorta di mini-Daspo, mutuato dal divieto di accesso alle manifestazioni sportive previsto dalla legge 401/1989.
La recidiva nelle condotte illecite comporta la possibile adozione da parte del questore di un divieto di accesso (il c.d. «Daspo urbano») per un massimo di sei mesi.
In prima battuta si rileva nel testo di legge la mancata presa di distanza dai contenuti più «polizieschi» di ordine pubblico, poiché il riferimento alle tipologie d’autore dei soggetti destinatari dell’azione di sicurezza urbana risultano essere ancora una volta le consuete figure della pericolosità sociale di ottocentesca memoria: gli oziosi, i vagabondi, le prostitute, gli etilisti, i mendicanti molesti ecc.
Inoltre la disciplina del Daspo poco sembra adattarsi alle tipologie di devianza che intende contrastare. È infatti uno strumento nato per limitare e prevenire le condotte violente delle tifoserie più aggressive, che sono per loro natura limitate nel tempo, in quanto si riferiscono allo svolgimento di specifiche manifestazioni sportive e alle ore immediatamente precedenti e successive a queste.
È difficile immaginare che il medesimo strumento, rivolto a persone che si concentrano in certi luoghi delle nostre città perché prive di altri punti di riferimento, si riveli altrettanto efficace. È ragionevole pensare che, se anche effettivamente allontanate, si sposteranno in un diverso luogo della città dove porranno in essere le medesime condotte che si vorrebbe prevenire. In altre parole, il Daspo cittadino pare eventualmente in grado di dislocare in un altrove indefinito i problemi legati alla marginalità sociale, senza alcuna possibilità di incidere sulle cause.
In definitiva, pur non introducendo il temuto sistema di «criminalizzazione in due tappe» che sancisce il ricorso alla sanzione penale a seguito della reiterazione di ordini amministrativi, la riforma tende a relegare la sicurezza urbana nel limitato ambito del c.d. «diritto penale municipale» o diritto amministrativo punitivo, già sperimentato con i pacchetti sicurezza Maroni nel biennio 2008-09.
L’esperienza degli anni successivi ci ha mostrato la scarsa efficacia delle ordinanze sindacali in materia di sicurezza e l’inadeguatezza di tanti patti locali per la sicurezza.
Senza un solido ancoraggio alle politiche preventive adottate a livello locale e regionale in questi anni in gran parte dei paesi europei, la panoplia di strumenti previsti dall’attuale decreto legge rischia di responsabilizzare ancora di più i sindaci, senza riconoscergli una reale possibilità di influire seriamente sui fattori di marginalità e devianza che interessano le loro città.
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