Il G2 e il clima che verrà. Dal 7 al 18 dicembre 2009 Copenhagen sarà al centro dell’attenzione del mondo poiché ospiterà la quindicesima Conferenza delle Nazioni unite sul clima (COP 15). A quasi vent’anni dal primo appuntamento, tenutosi a Rio nel maggio del 1992, il vertice danese – che dovrà trovare esecuzione al Trattato di Kyoto – si presenta come il più grande vertice sul cambiamento climatico di sempre. Questa volta anche Pechino, Washington e New Delhi saranno della partita. Una partita che ha il sapore dell’ultima spiaggia: tra il 1990 e il 2007 le emissioni di CO2 sono cresciute del 16.8%, con diverse eccezioni: la Germania è in regola con i parametri di “Kyoto” e attraverso il green job ha creato oltre 250 mila di posti di lavoro.
E’ la Cina il vero problema? Si, ma non solo. Gli Stati Uniti sono da sempre restii a parlare e a scendere a compromessi su queste tematiche, non avendo ancora ratificato il protocollo di Kyoto, l’accordo siglato l’11 dicembre 1997 che obbliga i Paesi firmatari ad operare una riduzione delle emissioni inquinanti in misura non inferiore al 50% entro il 2050, rispetto al 1990, anno di riferimento per il calcolo. USA e Cina non fanno parte dei 174 Stati firmatari, che rappresentano il 61.1% delle emissioni globali di gas serra. Se davvero Pechino è un problema, la questione centrale riguarda Washington, non solo per il fatto che gli Stati Uniti, da soli, sono responsabili del 36% delle emissioni. Obama è stato eletto al termine di una campagna combattuta anche sul tema della difesa degli equilibri ambientali, sull’impiego delle energie rinnovabili, sulla fine della dipendenza dal petrolio e dal gas naturale straniero e sull’impiego delle risorse “verdi” per arrivare alla creazione di oltre 5 milioni di posti di lavoro - il cosiddetto green job - grazie anche ai 61 miliardi di dollari messi a bilancio dal Recovery and Reinvestment act nel settore dell’energia rinnovabile.
A distanza di nove mesi dal suo insediamento alla Casa bianca si parla però di “contrordine”, il clima non è prioritario come si credeva ed il meeting di Singapore dei Paesi APEC ha sentenziato che la conferenza danese sembra essere fallita ancora prima dell’inizio. Obama e Hu Jintao hanno sostenuto che non c’è più tempo per mettersi d’accordo politicamente, trasformando la conferenza nell’ennesimo confronto fra le posizioni in campo, in attesa della Conferenza di Città del Messico del 2010. Eppure sono ormai due anni, dall’appuntamento di Bali del 2007, che politici, negoziatori e sherpa conoscono la deadline e sanno bene della necessità di iniziative radicali e rapide, perché il riscaldamento climatico si sta rilevando più veloce del previsto. Obama ha fatto ambiziose promesse in campagna elettorale, ma si trova ora in difficoltà, poiché al Congresso si è arenata la legge sul clima, la quale prevedeva restrizioni vincolanti sulle emissioni, che il Paese non può rispettare nel breve periodo.
L’ostacolo non è rappresentato soltanto dal G2, l’impressione è che, più in generale, i Paesi APEC non vogliano impegnarsi in un costoso programma di lotta alle emissioni di gas serra in termini di scadenze, livelli e sanzioni per i trasgressori: tutti a parole fanno promesse, ma non vogliono riconoscere a nessuno l’autorità super partes di controllore. Lars Rasmussen, premier danese, invitato al recente vertice di Singapore, è sembrato parzialmente soddisfatto poiché, nonostante il “suo” vertice appaia compromesso, ha ricevuto l’assenso per la firma di un accordo in due tempi, che potrebbe facilitare il rapporto con i paesi che non hanno firmato Kyoto. Alla notizia che la COP 15 fallirà, Greenpeace e WWF hanno lanciato un grido d’allarme sostenendo che pause di riflessione, allo stato attuale delle cose, potrebbero avere effetti devastanti. La scelta sino-americana rappresenta un duro colpo anche per l’Unione Europea, all’avanguardia sul dossier clima-energia con il «pacchetto 20-20-20» e impegnata nella delicata mediazione tra i paesi firmatari di Kyoto e quelli che, invece, lo hanno rifiutato.
Obama potrebbe essere la grande delusione del vertice, sospettato da molti di voler operare una retromarcia rispetto alle promesse fatte in campagna elettorale. Lui, sostenitore dell’ambizioso «pacchetto 10-10-10», deve dare un forte segno a Copenhagen partecipandovi. Se appena qualche mese fa gli addetti ai lavori annunciavano che al COP 15 si sarebbe assistito ad un Obama “formato Reagan” (quando a Reykjavik e Berlino, tra il 1986 e il 1987 annunciò la fine della Guerra fredda), ora da lui ci si aspetta una presenza “costruttiva”, partecipare per migliorare ed evitare che, in un prossimo futuro, si moltiplichino i conflitti per l’accesso alle risorse. Ban Ki Moon a Singapore ha ribadito che la sicurezza alimentare va di pari passo con quella climatica. Non si possono più procrastinare le scadenze. E’ condivisibile l’ambizione della Cina a essere forte, prospera e a non essere “contenuta”, ma è indispensabile che si avvii un percorso con Pechino per una “cooperazione pragmatica” che rafforzi la Comunità internazionale e ne stabilizzi l’agenda. Il vertice sul clima di Copenhagen è un importante banco di prova.
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