Sui quotidiani le chiamano “tragedie della gelosia”. A pochi giorni di distanza almeno due hanno attratto l’attenzione dei media: a Brescia un camionista uccide l’ex moglie, sua figlia e i loro partner; nel veronese un uomo strangola la moglie con il foulard e poi si costituisce. Le violenze di uomini sulle donne non sempre sfociano in tragedia, più spesso si “limitano” a colpire brutalmente nel corpo, a stuprare, attuare molestie sessuali e persecuzioni di ogni tipo (oggi identificate col reato di stalking). Questo quadro di violenza quotidiana, ambiente fertile dei crimini che sfociano in omicidi e tragedie, è stato ben descritto nella sua vastità impressionante da due indagini Istat di alcuni anni fa (2006 e 2009). Sono quasi 7 milioni le donne tra i 16 e i 70 anni che hanno subìto violenza fisica o sessuale nel corso della loro vita, cioè circa il 32% della popolazione femminile, ma la cifra sale ancora se si considera anche la violenza psicologica. Una parte considerevole di queste violenze, inoltre, avviene ad opera del partner entro la famiglia o un rapporto di coppia.

“Tragedia della gelosia” richiama alla memoria il titolo di un film del 1970 di Ettore Scola, Dramma della gelosia, che narra la storia popolare di un amore tra un muratore coniugato (Marcello Mastroianni) e una fioraia (Monica Vitti). Quando poi lei si innamora di un giovane pizzaiolo e sceglie di sposare quest’ultimo, lui, pazzo di gelosia, la uccide. Il film voleva essere una satira di una cultura italiana possessiva, tradizionalista nei confronti della donna e dei ruoli di genere, della famiglia in generale, ancora diffusa tra i ceti popolari, ma che sembrava ormai già messa in crisi negli strati colti e destinata a scomparire. Nel 1970 la “rivoluzione culturale” della contestazione studentesca e femminista si stava diffondendo, o così sembrava; il divorzio era stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano; Franca Viola, ragazza siciliana, rapita e stuprata aveva per la prima volta rotto il muro di omertà e di silenzio, denunciando il suo rapitore e rifiutando il matrimonio riparatore. Il film, dunque, già negli anni immediatamente successivi alla sua apparizione era ormai datato ? E lo è tanto più oggi a oltre quarant’anni di distanza? Sì e no.

Sì, è datato in quanto gli anni non sono passati invano. In particolare in questi giorni, in cui si è celebrata la festa dell’8 marzo, sono stati divulgati a iosa dati sui grandi cambiamenti della condizione della donna, dal superamento dei maschi nell’istruzione, alla crescita nell’occupazione, ma anche il suo blocco negli ultimi vent’anni, ai cambiamenti nei ruoli interni alla famiglia, che restano ancora largamente incompiuti, alla presenza nel mondo imprenditoriale, professionale e accademico (dove in realtà sono stati fatti passi da formica). Lo stesso fenomeno della violenza criminale sembra mettere a fuoco una divaricazione tra donne che ritengono la scelta autonoma un diritto acquisito e uomini non in grado di accettare questa autonomia, più paurosi di perdere la propria identità che “pazzi di gelosia”.

No, è ancora in parte attuale, per quella parte che descrive la persistenza e, per alcuni atteggiamenti significativi, addirittura un ritorno a una cultura tradizionalista di vecchio stampo che sembrava morta e sepolta. Ma quale tradizionalismo? Un tradizionalismo pervicacemente contrario al cambiamento nei ruoli dell’uomo e della donna nell’ambito della famiglia, a qualunque scostamento dall’idea “normale” di famiglia, legata a una concezione stereotipata della donna. Dall’elaborazione approfondita di un’ampia serie di domande di atteggiamento, della loro dinamica temporale nell’arco di trent’anni (fonte: European Value Survey), e del loro confronto con quanto avviene in altri Paesi europei comparabili con l’Italia (come Francia e Spagna) emerge un profilo sconfortante di una cultura che negli ultimi vent’anni (e per alcuni atteggiamenti negli ultimi dieci) è tornata agli anni Cinquanta, a nutrire pregiudizi sulla possibilità di essere nello stesso tempo lavoratrice e una buona madre, a considerare negativamente il lavoro delle donne sul benessere famigliare, a rifiutare legittimità a nuove forme di convivenza che pure sono una realtà di fatto. L’arretramento è reso tanto più visibile se confrontato con la Francia e con la Spagna dove il tradizionalismo è molto ridotto (la metà dell’Italia) e in continua diminuzione.

Se vogliamo aumentare la presenza delle donne nel lavoro, nella sfera pubblica, oltre a dare loro le risorse, indispensabili, per poter competere effettivamente con gli uomini, non sarebbe bene pensare ad un’opera educativa che finalmente faccia uscire l’Italia da uno stato di minorità intellettuale e civile, e renda soprattutto i giovani consapevoli che la libertà e l’autonomia delle donne è un diritto, ma non è affatto scontato che resti tale e sia condiviso?

 

Su questi temi la Rivista il Mulino ha pubblicato di Cesare Fiumi, Uomini che uccidono le donne (numero 1/11)  e, di Elisa Giomi, Neppure con un fiore? La violenza sulle donne nei media italiani (numero 6/10)