Le riforme in Italia non arrivano mai. Le infrastrutture sono vecchie, gli acquedotti perdono acqua, l’alta velocità del trasporto è ancora di là da venire, la giustizia civile è in condizioni tali che un cittadino onesto spesso preferisce subìre il torto che affrontare un processo che può durare decenni; l’efficacia della ricerca e la qualità dell’istruzione perdono costantemente colpi in quella che dovrebbe essere diventata, anche in Italia, la “società della conoscenza”; veti e blocchi si incrociano, si sommano e mettono i bastoni tra le ruote a qualsivolglia onesta iniziativa.
Intanto i giovani e meno giovani, direi tutti coloro che hanno qualcosa da dire e da fare, sapendo quello che stanno dicendo e facendo, sono al palo, a meno di non far parte di qualche cricca o consorteria potente in quest’Italia “rifeudalizzata”.
Di pessimismo critico si possono riempire pagine e pagine, con ragione. Vorrei invece, nelle poche righe di una nota, soffermarmi sugli “italiani del fare bene”, quelli – e sono tanti !! – che certo non si trovano a loro agio in un contesto organizzativo e istituzionale che non li valorizza e non investe in loro, ma che comunque, nonostante tutto e indipendentemente dalle loro scelte di voto, continuano a svolgere con abilità, pervicacia, onestà e volontà di miglioramento il loro lavoro, che sia un’impresa famigliare, una bottega artigiana, una professione liberale, un’arte o tecnica di qualsivoglia tipo, un’attività dipendente in enti pubblici e privati. L’Italia non è solo malaffare; vi abbonda, a tutti i livelli, il lavoro creativo, che implica ingegno, competenza, progettualità e amore per il lavoro ben fatto, da cui trarre soddisfazione giorno per giorno.
Mi viene in mente un gran libro di Primo Levi, la Chiave a stella. Il titolo riprende l’attrezzo del mestiere dell’operaio-artigiano piemontese Faussone che fa il montatore. Con la sua “chiave a stella” Faussone applica il suo ingegno, il suo rigore, la sua competenza all’esecuzione del proprio mestiere, con l’idea che un lavoro ben fatto sia di per sé motivo di soddisfazione e che vederlo crescere sotto le proprie mani sia non solo utile, ma bello e capace di dare un senso alla vita.
Si dirà: un’immagine inattuale in un mondo in cui i modelli culturali dominanti sono quelli che ci propina la televisione con i suoi reality show. Qui “realtà” è il ciabattare quotidiano senza scopo, che mostra un Faussone alla rovescia, un essere umano ridotto alle sue funzioni corporali, alle più meschine abitudini che senza fatica e senza creare un bel nulla, raggiunge la soddisfazione effimera di comparire e diventare “famoso”.
Inattuale? In un libro recente Richard Sennett ripropone L’uomo artigiano, senza un’ombra di nostalgia per il passato. E’ l’uomo del saper fare e del miglioramento continuo, che ha consapevolezza del valore del proprio lavoro e trae autostima da ciò che fa.
Rivalutare questo modello è una scelta necessaria, secondo l’autore, per non ricadere nella crisi finanziaria delle buonuscite drogate e dei business virtuali. In Italia abbiamo la fortuna che queste “artigianità” esistono numerose.
Per valorizzare tutto ciò dire di perseguire una politica “del fare” non dice nulla (si può anche fare male): è assolutamente necessario ed urgente attuare una politica che, nei fatti, premi il “saper fare” e il “fare bene”.
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