Secondo quanto previsto dall’articolo 3 del Ddl concorrenza, varato alla Camera il 26 luglio, entro il 31 dicembre 2024 tutte le concessioni balneari in essere dovranno essere riassegnate tramite gare pubbliche e trasparenti. Eppure, se all’apparenza sembra di trovarsi davanti alla tanto decantata «apertura al mercato» in un settore finora «chiuso alla concorrenza» (questa è almeno la percezione dell’opinione pubblica, alimentata dai media generalisti che nel raccontare la vicenda delle concessioni balneari, come vedremo, sono sempre stati colpevoli di superficialità e faziosità), in realtà le disposizioni della legge in materia di spiagge aprono a diverse criticità e sono piuttosto vaghe in troppi punti, demandando l’attuazione della riforma a un successivo decreto attuativo. La futura gestione dei litorali italiani è insomma in realtà ancora tutta da scrivere, e potrebbe essere persino peggiore rispetto a quella che abbiamo conosciuto finora.
Breve storia delle concessioni balneari italiane. La maggior parte delle concessioni balneari italiane è stata rilasciata nel secondo dopoguerra in base al Codice della navigazione del 1942, un testo normativo redatto dal regime fascista in pieno conflitto mondiale, quando i litorali erano considerati soprattutto un confine di Stato e dunque, se dovevano essere assegnati a privati cittadini per avviare delle attività economiche, occorreva che questi fossero persone di fiducia. Secondo il Codice, alla scadenza della concessione valeva il «diritto di insistenza»: in presenza di più domande per ottenere la stessa porzione di spiaggia, veniva riconosciuta la preferenza al titolare precedente.
È in base a questo regime normativo che sono nati gli stabilimenti balneari, gestiti da famiglie che s’inventarono una nuova tipologia di impresa sulla scia del boom economico e dell’esplosione del turismo di massa. Se in precedenza le spiagge erano porzioni di terreno di scarso interesse sia per il pubblico che per il privato, a partire dagli anni Cinquanta le amministrazioni locali hanno rilasciato regolari autorizzazioni per costruire strutture in muratura che nel giro di pochi anni hanno alimentato un settore economico unico al mondo, soprattutto al Centro Nord. Tali strutture hanno impattato notevolmente sul paesaggio costiero italiano, ma si tratta dell’eredità di scelte effettuate in tutt’altro contesto di sensibilità politica e ambientale.
Risale invece ad anni più recenti la legge 88/2001, che aveva introdotto il meccanismo del «rinnovo automatico» dei titoli al medesimo concessionario al fine di dare ulteriori garanzie di stabilità a un settore che nel giro di mezzo secolo aveva assunto sempre più peso economico. Tuttavia in seguito la direttiva europea «Bolkestein» (2006) e il Trattato di Lisbona (2007) hanno affermato come le spiagge, in quanto beni pubblici, non possano essere affidate automaticamente allo stesso concessionario, bensì debbano essere oggetto di periodiche gare aperte in caso di assegnazione a privati. Nel 2010 l’ultimo governo Berlusconi ha abrogato il diritto di insistenza e il rinnovo automatico per uscire dalla procedura di infrazione aperta dalla Commissione europea, ma senza introdurre un nuovo regime normativo per la gestione delle concessioni, che sono state oggetto solo di una serie di proroghe decise dai successivi governi (prima al 2015, poi al 2020, infine al 2033). Ma a novembre 2021 il Consiglio di Stato ha annullato la proroga al 2033, affermando come anche questa fosse una forma di rinnovo automatico in contrasto col diritto europeo e obbligando il legislatore a riassegnare tutte le concessioni esistenti tramite gare pubbliche entro il 31 dicembre 2023. È dunque alla luce di questo quadro (ancora più complesso di come è stato appena riassunto per ragioni di brevità; per una trattazione più approfondita rimando al mio La linea fragile) che il governo Draghi ha deciso di inserire la riforma delle concessioni all’interno del disegno di legge sulla concorrenza, approvato il 30 maggio in Senato e il 26 luglio alla Camera.
Il duplice interesse pubblico-privato sulle spiagge. In Italia la concessione demaniale marittima è concepita come un patto fra lo Stato e il privato imprenditore: a fronte di un canone calmierato, il concessionario è obbligato per legge a farsi carico della cura di una porzione di bene pubblico per conto dello Stato (pulizia, servizio di salvataggio, manutenzione ecc.), traendone in cambio un guadagno attraverso l’attività di accoglienza e ristorazione. Quella italiana è una modalità di gestione dei litorali unica al mondo, dal momento che in tutti gli altri Paesi i costi per la manutenzione e la pulizia delle coste sono di competenza dell’amministrazione pubblica e i concessionari pagano canoni più alti e sono in numero minore.
Senza voler insinuare che un sistema è meglio dell’altro, ma solo al fine di comprenderne le specificità, si può confrontare la situazione italiana con quella spagnola, Paese europeo che più si avvicina al nostro in termini di importanza del settore turistico balneare:
- Nei nostri litorali, ogni giorno il concessionario pulisce la sua porzione di spiaggia, mentre in Spagna passa il trattore del Comune con un impiegato pubblico lungo tutto il tratto di costa di competenza territoriale.
- I bagnini di salvataggio in Italia sono dipendenti degli stabilimenti balneari o di cooperative private pagate dai concessionari; in Spagna invece sono dipendenti pubblici.
- In Spagna può esserci un solo stabilimento balneare ogni 150 metri di costa; in Italia non c’è nessun limite e i manufatti sono sorti uno accanto all’altro.
- In Spagna la spiaggia è di competenza del ministero dell’Ambiente, in Italia invece è in prevalenza in capo al ministero delle Infrastrutture, a dimostrazione che lì le coste sono più concepite per il loro valore ecologico da preservare, mentre qui più per il loro valore economico da sfruttare.
Dunque il sistema delle concessioni balneari italiane agli stessi soggetti non è stato mantenuto per il solo interesse degli imprenditori privati, ma anche per quello dell’amministrazione pubblica, che grazie all’affidamento delle spiagge a terzi, finora ha potuto non occuparsi dell’impegnativa cura che richiedono i quasi ottomila chilometri di coste italiane. Basta recarsi in una spiaggia libera nel Sud del Paese per rendersi conto dell’enorme trascuratezza in termini di pulizia, rispetto ai tratti affidati in concessione (è anche per questo, oltre che per la comodità dei servizi offerti, che i turisti preferiscono recarsi negli stabilimenti balneari). Perciò è capzioso fare credere, come hanno sempre fatto i media generalisti, che le proroghe delle concessioni abbiano rappresentato dei «favoritismi alla lobby dei balneari»: in realtà i vari governi che si sono succeduti dal 2010 a oggi sono sempre stati i primi a volere che la situazione restasse immutata, al fine di non lasciare alla pubblica amministrazione il complesso compito di garantire la pulizia e la sicurezza nelle spiagge italiane, di cui i balneari si sono sempre occupati adeguatamente (pena la decadenza della concessione, sempre per legge). Oltre a ciò, va sottolineato che in base all’articolo 49 del Codice della navigazione, le strutture in muratura alla scadenza del titolo sarebbero oggetto di incameramento, ed è facile immaginare che trovarsi a possedere e gestire migliaia di manufatti rappresenterebbe più un problema che un guadagno per lo Stato (secondo uno studio di Unioncamere sul numero di stabilimenti balneari, nel 2021 questi ammontavano a 7.173). Pertanto, l’amministrazione pubblica è stata la prima interessata ad approvare le proroghe automatiche, che hanno consentito di non affrontare la questione di cui il governo Draghi è stato invece costretto a occuparsi. Il problema è che lo ha fatto in modo troppo approssimativo.
L’amministrazione pubblica è stata la prima interessata ad approvare le proroghe automatiche, che hanno consentito di non affrontare la questione
Il futuro incerto delle coste. Il Ddl concorrenza si limita a obbligare i Comuni a istituire le procedure di gara entro il 31 dicembre 2023 per riassegnare le concessioni balneari, dando la possibilità di un ulteriore anno di deroga per le amministrazioni che dovessero dimostrare delle non meglio precisate «difficoltà oggettive». Ma per definire tutti gli aspetti necessari al fine di istituire tali gare, la norma rinvia al decreto attuativo da varare entro i successivi sei mesi: si tratta di aspetti fondamentali come i criteri di selezione dei futuri vincitori o il calcolo dell’indennizzo per i concessionari uscenti a carico dei subentranti, dal momento che la spiaggia è un bene pubblico, mentre le imprese che vi sono sorte legittimamente sopra – e che con le gare verrebbero espropriate – sono proprietà private (per questo la compravendita di stabilimenti balneari è sempre stata possibile, a dispetto di chi denunciava la presunta mancanza di concorrenza).
Per come sono concepite nella legge appena approvata in parlamento, le future gare delle concessioni balneari non daranno affatto la possibilità a chiunque di poter gestire uno stabilimento, né tantomeno «libereranno» le spiagge dalla presenza di queste imprese per aumentare la quota di litorali liberi, come invece hanno fatto credere alcune capziose ricostruzioni dei mass media. In realtà gli attuali titolari potranno ovviamente competere per riottenere le loro concessioni, e se saranno in grado di dimostrare di avere gestito bene la loro porzione di costa e di meritarsi di proseguire, potranno continuare a esercitare il loro lavoro: secondo la riforma, infatti, nelle gare bisognerà tenere conto «dell’esperienza tecnica e professionale già acquisita in relazione all’attività oggetto di concessione» nonché «della posizione dei soggetti che, nei cinque anni antecedenti l’avvio della procedura selettiva, hanno utilizzato una concessione quale prevalente fonte di reddito per sé e per il proprio nucleo familiare». Dall’altro lato, però, nella norma si afferma che le concessioni balneari dovranno essere affidate «sulla base di procedure selettive nel rispetto dei princìpi di imparzialità, non discriminazione, parità di trattamento, massima partecipazione, trasparenza e adeguata pubblicità» e «in maniera tale da non precludere l’accesso al settore di nuovi operatori». Resta da vedere come si potranno conciliare questi principi all’apparenza in contrasto tra loro, figli di una norma scritta in maniera frettolosa e troppo vaga.
Le future gare delle concessioni balneari non daranno affatto la possibilità a chiunque di poter gestire uno stabilimento, né tantomeno “libereranno” le spiagge dalla presenza di queste imprese per aumentare la quota di litorali liberi
Di fatto, insomma, il governo Draghi ha solo finto di varare una riforma, lasciando la responsabilità dei temi più importanti al successivo decreto attuativo. Date le dimissioni del premier, sarà dunque il prossimo governo a dover decidere davvero, e con una legge tanto fumosa sarà possibile fare qualsiasi cosa: l’unica certezza sarà l’obbligo di espletare le gare entro il 31 dicembre 2024, ma su come si faranno, è ancora tutto da scrivere. Potenzialmente gli attuali titolari di stabilimenti balneari potrebbero continuare a esistere ancora per molti anni, ma passando attraverso la legittimazione delle gare pubbliche (che si spera elimineranno quella minoranza di concessionari che hanno lucrato senza prendersi adeguata cura dell’ambiente costiero o hanno commesso abusi e illeciti); oppure il prossimo governo potrebbe avere carta bianca per cancellare del tutto l’attuale modello di piccola imprenditoria familiare e aprire alla possibilità che anche questa porzione di patrimonio pubblico passi in mano a gruppi economici con maggiore potere d’acquisto.
Si tratterebbe di un film già visto, quello cioè di osannare l’apertura del mercato per introdurre norme coperte dalla maschera delle liberalizzazioni, che in realtà di fatto favoriscono il grande capitalismo globale. La possibilità è concreta: la riforma Draghi demanda infatti sempre al decreto attuativo il compito di stabilire un «numero massimo di concessioni di cui può essere titolare, in via diretta o indiretta, uno stesso concessionario a livello comunale, provinciale, regionale o nazionale», nonché «l’eventuale frazionamento in piccoli lotti delle aree demaniali da affidare in concessione, al fine di favorire la massima partecipazione delle microimprese e piccole imprese». Si tratta anche in questo caso di principi aleatori e senza alcun valore concreto, che sarà il prossimo governo a decidere se e come attuare.
È dunque dall’esito delle prossime elezioni che dipenderà il futuro delle coste italiane: la partita non è ancora chiusa e come cittadini occorre tenere gli occhi aperti, pretendendo che i circa ottomila chilometri di litorali italiani smettano di essere considerati solo per il loro valore economico e inizino a essere anche più preservati per il loro valore ambientale. La riforma delle concessioni balneari, infatti, può essere occasione non solo per eliminare le rendite di posizione e avviare un modello imprenditoriale basato sul merito di chi avrà il privilegio di gestire un bene pubblico come la spiaggia, ma anche per pianificare un arretramento gestito delle strutture in prima linea sulla costa, che sono più esposte all’innalzamento del mare di causa antropica in corso. Di tutto ciò non si è mai ragionato abbastanza, in un dibattito che finora ha visto solo la contrapposizione dei poli «sì alle gare/no alle gare», senza tenere conto della complessità del tema.
Riproduzione riservata