"Ma la Chiesa cattolica ha preti sposati, no? I cattolici greci, i cattolici copti… no? Ci sono, nel rito orientale, ci sono preti sposati. Perché il celibato non è un dogma di fede, è una regola di vita che io apprezzo tanto e credo sia un dono per la Chiesa. Non essendo un dogma di fede, sempre c’è la porta aperta". Così si è espresso il papa nel viaggio di ritorno dal pellegrinaggio in Terra Santa rispondendo a una domanda dei giornalisti. Certo, non pare questo uno dei temi più urgenti dell’agenda di Bergoglio, che in ciò si pone direttamente nella linea di alcune figure profetiche dell’episcopato sud americano, come quella di dom Hélder Camara, che affermava: "Va bene parlare del celibato, ma quando affronteremo i temi della fame e dell’ingiustizia?".
Nondimeno il tema dopo diversi anni torna sul tavolo. La novità probabilmente più significativa non pare essere tanto la res del celibato, ma che se ne torni a parlare in maniera aperta e non drammatizzata. Davvero pochi sono stati gli argomenti più "censurati" nel dibattito pubblico e ufficiale della Chiesa. Probabilmente tale sottrazione dal confronto e dalla possibilità di scambio è originata dalla quantità di questioni ad esso correlate, e spesso dalla debolezza delle argomentazioni teoriche e delle motivazioni esistenziali che sorreggono questa prassi. Quindi la regola non scritta del non-dibattito è stata: visto che molte cose – che toccano direttamente e in profondità la vita della maggioranza dei ministri (presbiteri e vescovi) della Chiesa cattolica di rito latino – sembrano vacillare, non conviene parlarne, né conviene smuoverle dal loro andamento solito, anche se tutt’altro che coerente e adeguato. Lo stesso neo eletto segretario generale – Nunzio Galantino – della Conferenza episcopale italiana ha accennato al fatto che nel dibattito e nella prassi sinodale della Cei non possono esserci dei tabù, dei non-detti e delle rimozioni strutturali. In questi primi accenni non si prospettano, così, soluzioni o rinnovamenti di prassi, ma semplicemente si afferma che è possibile parlarne, uscendo decisamente da quella situazione descritta negli anni Cinquanta dal teologo Yves Congar: “il problema non è che a Roma condannano le soluzioni, ma condannano le stesse domande”.
Ma qual è, in termini essenziali, la questione? Probabilmente va sottolineata una prima caratteristica: non si tratta qui di una sorta di adattamento della Chiesa cattolica ai tempi moderni, di una concessione – per così dire – alla debolezza umana. Spesso il celibato viene trattato come una materia intrigante o rubricato insieme alle – pur importanti, ma davvero diverse – questioni del sacerdozio femminile, del rapporto con l’omosessualità, delle questioni bioetiche e di morale sessuale. Di per sé la possibilità di ammettere all’ordinazione presbiterale uomini con moglie e figli è tutt’altro che una questione moderna o post-moderna. Si trova già con chiarezza nel Nuovo Testamento – dove, tra l’altro, è proprio l’essere mariti e padri degni uno dei criteri decisivi per esercitare un ministero nella famiglia di Dio – e si trova nella prassi delle Chiese antiche la chiara possibilità che i ministri siano non sposati, sull’esempio del ministero itinerante e profetico dello stesso Gesù, o che i ministri abbiano responsabilità famigliari. Entrambe le opzioni sono dall’inizio state possibili. Come affermato dallo stesso Hans Urs von Balthasar – teologo tra i più significativi del Novecento – non è, quindi, un problema di novità teologica, di cedimento al secolo o di adattamento alle esigenze della modernità. Tecnicamente si tratta di una delle possibilità esistenti nella ricca e multiforme tradizione cristiana, a cui la Chiesa può attingere per meglio affrontare i problemi e le esigenze della missione nel tempo presente. Non è un caso che all’interno della stessa tradizione cattolica esista nelle Chiese orientali questa possibilità pacificamente praticata e – come ha bene indagato il teologo Basilio Petrà – sancita dal Codice di diritto canonico per le chiese orientali cattoliche promulgato dalla stessa Santa Sede. Ragionamento simile potrebbe essere fatto per il recente provvedimento per i ministri anglicani e che rientrano nella comunione con Roma e che prevede la possibilità di essere presbiteri cattolici con famiglia.
Oggi non si tratterebbe, dunque, di abolire il celibato, ma semplicemente di sviluppare e allargare le possibilità di accesso al ministero. Questo allargamento – una volta che fosse reintrodotta una duplice opzione nello scegliere i presbiteri tra uomini celibi o sposati – potrebbe suonare come una vera e propria rivalutazione dello stesso celibato. Infatti una volta che la scelta di non sposarsi e di non avere figli non coincida di default con l’essere presbitero, ma sia una scelta più consapevole e libera – ossia non legata semplicemente all’assetto strutturale e istituzionale ecclesiastico – potrebbe davvero divenire un forte appello alla dimensione "altra" e "profetica" del messaggio evangelico e alla estrema libertà talora necessaria al ministero dell’annuncio evangelico. È chiaro che il tema tocca, direttamente o indirettamente, molte questioni: quella dei ministeri, l’organigramma clericale, le rappresentazioni dei fedeli, la gestione della vita quotidiana di quell’impressionante rete territoriale che sono le parrocchie, le idee e le concezioni sulla sessualità e sull’amore umano, il modo in cui viene gestito e rappresentato il potere, modelli e paradigmi centenari, la relazione tra la giustizia degli affetti e la vita del credente. In definitiva il ripensamento su questo punto - che ne implica molti altri - può arrivare a riconfigurare il ministero dei preti e, quindi, il modo con cui la Chiesa cattolica abita il mondo. “La porta aperta” ricordata da Francesco è un invito a riaffrontare un tema che, se adeguatamente ponderato, potrebbe aprire possibilità significative per la vita della Chiesa cattolica, in maniera tutta particolare potrebbe aiutare a ripensare la figura - strategica e simbolica - del prete aggiornandone i tratti in umanità e in profondità evangelica. La posta in gioco non è, dunque, da poco.
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