La liberalizzazione ferroviaria riparte. O almeno così sembra. Dopo un paio di decenni di torpore, scanditi da occasionali reprimende dell’Antitrust romana e da qualche bacchettata dell’Ue, il governo Monti ha cercato di allentare i freni alla competizione in ferrovia. Con uno strano mix di urgenza e moderazione.
Nel frattempo la compagnia ferroviaria privata Nuovo trasporto viaggiatori ha lanciato il guanto di sfida a Trenitalia su alcune tratte dell’alta velocità. Con treni nuovi di zecca e politiche di prezzo, per ora, aggressive.
Si tratta di due eventi che paiono segnare l’inizio di una nuova era. Ma che, in realtà, si inseriscono entro un processo di lungo periodo segnato da fasi alterne: brevi momenti di entusiasmo competitivo, seguiti inesorabilmente da forti e persistenti venti di restaurazione monopolistica. Tutto era cominciato, alla fine degli anni Novanta, con le grandi speranze create dalla riorganizzazione delle Fs in piena sintonia con l’agenda di riforma dettata, all’epoca, dall’Ue. L’azienda si divideva in diverse unità di business indipendenti facenti capo a una holding pubblica. Separare l’amministrazione della rete da quella dei servizi era la premessa per la nuova configurazione del mercato ferroviario. Il gestore degli impianti fissi (Rfi) si sarebbe occupato dell’esercizio del network ferroviario e della riscossione dei pedaggi, mentre il gestore dei servizi ferroviari e dei rotabili (Trenitalia) avrebbe operato secondo logiche prevalentemente orientate all’efficienza economica. Pur con alcune importanti lacune, la liberalizzazione ferroviaria è proseguita a singhiozzo per una ventina d’anni, ponendo l’Italia a un livello medio di apertura del mercato. Molto al di sotto di Regno Unito e Svezia, un po’ meno di tedeschi e olandesi, meglio dei francesi. Sotto il profilo degli esiti, tuttavia, la concorrenza delle compagnie private a Trenitalia si è limitata ad accaparrarsi una quota ristretta (circa il 20%) del solo traffico merci. Irrilevante, se si eccettuano pochissimi casi, la scalfittura del monopolio pubblico nel settore passeggeri, in particolare sulla medio-lunga percorrenza.
A fronte delle fanfare che lo avevano preceduto, il recente decreto liberalizzazioni mira certamente a incrementare la competizione ferroviaria, ma con estrema prudenza. Esso intende disciplinare tre aspetti: tutti rilevanti, si dirà; ma nessuno, temiamo, decisivo se le cautele del decreto restano tali. Innanzitutto, viene ristabilito l’obbligo di gara per i servizi regionali e locali. Parliamo, è bene dirlo, di concorrenza in senso debole: competizione per il mercato (gare per assegnare linee da esercire monopolisticamente) e non sul mercato (gare per gestire servizi concorrenziali sulla stessa linea). Sono inoltre «fatti salvi, fino alla scadenza dei primi sei anni di validità», gli affidamenti privati già in atto.
In secondo luogo, si dispone la creazione di un’Autorità indipendente di settore per la regolazione e la salvaguardia della concorrenza, in linea con il dettato normativo comunitario. Tale procedimento non è tuttavia immediato: il governo si impegna infatti alla sua istituzione con apposito disegno di legge, trasferendone transitoriamente le funzioni, dal prossimo 30 giugno, all’Autorità per l’energia elettrica e il gas.
In terzo luogo, il problema della consanguineità fra gestore della rete e gestore (quasi) monopolista dei servizi di trasporto è risolto con un salomonico nulla di fatto: solo dopo un congruo periodo di studio e monitoraggio ad opera dell’apposita Autorità indipendente si deciderà se intervenire per la privatizzazione dell’uno, dell’altro o di entrambi (senza peraltro stabilire quando e come).
Il fatto è che, volendo, la competizione fra imprese ferroviarie potrebbe essere già oggi, sebbene imperfetta, una realtà concreta, quantomeno in alcuni segmenti. Certo, ci sarebbe da sanzionare più efficacemente lo squilibrio fra incumbent pubblico e concorrenti privati, con il primo ingiustamente avvantaggiato sui secondi da rendite di posizione dominante. In questo senso, l’avvento di una Autorità autenticamente indipendente è un requisito altamente auspicabile. Ciò non toglie, tuttavia, che, laddove il mercato fosse considerato attrattivo dagli attori in gioco, un qualche grado di competizione, nel segmento passeggeri, sarebbe già possibile. Lo dimostra la concorrenza in atto per l’alta velocità, dove l’ascia di guerra fra Trenitalia e il vettore privato Ntv è stata dissotterrata da tempo e porterà a brevissimo, sulle linee più redditizie (la Roma-Milano, ad esempio), ad un significativo aumento dell’offerta di mobilità veloce. Lo dimostra, a contrario, lo stato di sostanziale abbandono in cui versa l’«altra» velocità ferroviaria: i treni a medio-lunga percorrenza nazionali e internazionali (eurocity, intercity ed espressi notturni) e soprattutto i treni di carattere regionale. Anche in questi segmenti (racchiusi nel cosiddetto «servizio universale») il mercato ferroviario sarebbe, potenzialmente e con tutte le distorsioni segnalate, già contendibile; ma non è attrattivo e dubitiamo che lo possa divenire per il solo effetto della (debole) regolazione governativa. Quello che manca è evidente e, rincresce dirlo, c’entra poco con gli strumenti regolativi messi in campo col decreto liberalizzazioni. Se si vuole spostare il traffico dalla gomma al ferro occorre guardare più avanti della semplice apertura del mercato. Bisognerebbe infatti rivedere l’intera politica dei trasporti per un suo riequilibrio modale. Ma questa è tutta un’altra storia.
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