Sedici candidati sindaci, ventiquattro liste, settecento aspiranti consiglieri. Queste cifre dicono non solo la frammentazione dell’offerta politica proposta agli elettori comaschi ma anche la sofferenza di un sistema incapace di raccogliere e ordinare la rappresentanza secondo le categorie proprie del bipolarismo della seconda repubblica.
Cinque anni fa i candidati erano sei e le liste un terzo in meno. E già allora la diserzione dal voto riguardò oltre il trentacinque percento degli elettori. Poi sono venuti lo sfarinamento delle coalizioni e la crisi dei partiti e, a livello locale, il disincanto di un elettorato che ha visto deluse le sue aspettative dal personale politico del centrodestra. L’ultimo mandato di Stefano Bruni, un fedelissimo di Formigoni, lascia in eredità alla città la landa desolata di quella che viene considerata la sua area strategica per eccellenza. Cinque anni fa la demolizione della vecchia fabbrica, abbandonata da trent’anni, era stata salutata con i fuochi d’artificio. Una metafora della difficoltà di riconvertire il volto e la struttura di una città industriale che, qui più che altrove, fatica a immaginare alternative vincenti per il proprio sviluppo. Lascia lo sfregio di un interminabile cantiere per la realizzazione di paratie antiesondazione che hanno rischiato di negare la vista del Lago. Lascia anche la percezione di un degrado progressivo dell’arredo urbano e del territorio, vittima di una bolla edilizia che ha sbilanciato qualsiasi ragionevole rapporto tra offerta e domanda. Si comprende allora – ma non smette di colpire – che nessuno, ma proprio nessuno, in questa campagna elettorale provi a rivendicare i meriti dell’Amministrazione uscente.
La sconfitta annunciata del centrodestra ha però anche altre ragioni. Anzitutto l’incapacità dei suoi gruppi dirigenti di valutare l’effetto della dissoluzione della coalizione, con Lega Nord e Udc che vanno al voto con propri candidati, senza alcuna prospettiva realistica di realizzare una eventuale convergenza al ballottaggio. Nel 2007 il loro apporto contribuì per più di un quarto al successo del centrodestra, ma soprattutto esprimeva il carattere, politicamente plurale ma culturalmente e socialmente omogeneo, di quell’“asse del Nord” che a lungo in queste plaghe ha potuto rappresentare un forte elemento di identità e un progetto realistico di governo. Poi le conseguenze della perdita di consensi del Pdl a livello nazionale, che ha annullato la rendita di posizione dei suoi rappresentanti locali, l’effetto di trascinamento che in passato ha fatto premio sulle prove mediocri offerte nelle istituzioni locali. La passività, l’incapacità di tarare in termini nuovi l’immagine e la proposta di un Pdl rimasto solo, viste da qui, appaiono stupefacenti. Parlano di una scarsa reattività, di una crisi profonda. Era quasi fatale che, in queste condizioni, lo stesso Pdl finisse per implodere. Una parte a chiudersi nel fortino di una maggioranza dominata dagli ex di An e dal blocco di Cl; l’altra, che ha infine scelto di consumare una scissione, a richiamarsi, piuttosto sterilmente, allo spirito originario di Forza Italia. Quasi ad anticipare un corso politico che il partito di Berlusconi potrebbe decidere di avviare dopo il voto.
In queste condizioni, il candidato del centrosinistra sembra avere la strada spianata per un’affermazione che, dopo un ventennio di dominio del centrodestra, assumerebbe un valore “storico”. La coalizione ha i tratti della foto di Vasto ma il candidato e la lista della sua componente principale, il Pd, sono stati scelti in modo da rassicurare una parte dell’elettorato moderato, con richiami anche biografici alla tradizione democristiana. Una volta depotenziato lo scontro tra i due “poli” durato un ventennio, la vera sfida che si va profilando, e che è destinata ad incidere sul quadro politico anche oltre il risultato elettorale, è piuttosto quella che vede contrapposte le forze politiche nazionali, la galassia delle componenti “civiche”, e il ciclone dei “grillini”.
Che qualcuno, a torto, assimila alla Lega delle origini, quella che, nel 1990, fece irruzione nel palazzo con il venti percento dei voti. Quello, però, era un movimento che mirava a sostituire una forma di potere ad un’altra e che a suo modo esprimeva l’ansia di una rivalsa sociale e di un riconoscimento culturale. Qui c’è invece la contestazione radicale dei meccanismi della democrazia rappresentativa. La fotografia di una disintegrazione della società che potrebbe tradursi, nel vuoto di una qualsiasi “egemonia” culturale, in un dato politico devastante. Perché la vittoria annunciata del centrosinistra sembra destinata a verificarsi più per le contraddizioni dell’avversario che per la forza del proprio progetto di città.
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