Diecimila giorni: tanto è durato il Muro che un tempo divideva concretamente Berlino e simbolicamente la Germania e l’Europa. Una progressione di cerchi concentrici ben nota a protagonisti e osservatori dell’epoca, che interpretavano la contrapposizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica al pari di un gioco a somma zero di cui il Vecchio Continente era al contempo oggetto del contendere, ostaggio e perlopiù spettatore. Una progressione, soprattutto, che comportava la rapida trasmissione di stati di massima allerta attraverso le rispettive alleanze militari, al pari di reti nervose, anche in occasione di episodi locali e circoscritti, come lo spostamento di una colonna di carri armati o un volo militare a bassa quota nell’ex capitale tedesca. Ne era conscio Nikita Krusciov, leader sovietico dal linguaggio oltremodo colorito, che equiparava Berlino ai «testicoli dell’Occidente»: per sentirlo gridare, diceva, era sufficiente una «strizzata» al momento giusto. La baldanza dell’espressione nascondeva però una realtà oggi nota, secondo cui la gestione della questione berlinese fu spesso oggetto di attrito tra i leader sovietici e i loro alleati tedeschi: tanto questi ultimi erano persuasi di dover sigillare la parte occidentale della città per mettere fine a un’insostenibile emorragia umana, quanto Mosca era preoccupata di evitare ritorsioni su scala globale. Nell’era delle armi atomiche e della «Mutual Assured Distruction» (Mad, secondo il più azzeccato degli acronimi), il rischio di un’escalation incontrollata non poteva mai essere escluso: nel 1962, i tredici giorni della crisi di Cuba lo avrebbero reso esplicito al mondo. Eppure, soltanto un anno prima, la decisione di sancire la divisione di Berlino non aveva scatenato nulla di paragonabile a quanto accaduto attorno all’isola caraibica. Oggi, quando i giorni trascorsi dall’abbattimento del Muro sono più di undicimila, è necessario tornare al momento della sua creazione per comprendere meglio le dinamiche che vi condussero.

Il neo-leader sovietico Nikita Krusciov lanciò un ultimatum: avrebbe obbligato gli occidentali a negoziare con le autorità di un Paese che non riconoscevano, poiché la Germania Est era considerata soltanto una zona di occupazione sovietica e il suo governo privo di qualunque legittimità

Dopo anni di relativo silenzio, la questione di Berlino tornò a occupare le prime pagine dei giornali nel 1958. Krusciov, giunto da poco a occupare il ruolo di leader sovietico, intimò pubblicamente agli alleati occidentali del tempo di guerra (Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia) di concludere con l’Urss il trattato di pace per la Germania che mancava dal 1945. In caso contrario, Mosca avrebbe siglato un trattato separato con la Repubblica democratica tedesca, cui avrebbe trasferito anche il controllo sulle vie d’accesso per quel «tumore maligno» rappresentato da Berlino Ovest. Questo avrebbe obbligato gli occidentali a negoziare con le autorità di un Paese che non riconoscevano, poiché la Germania Est era considerata soltanto una zona di occupazione sovietica e il suo governo privo di qualunque legittimità. Le motivazioni di Krusciov sono ancora oggetto di discussione; è però certo che essa fu dovuta al desiderio di rispondere con una mossa audace alle crescenti critiche cinesi di «accomodamento» con l’Occidente, al timore di una nuova aggressività della Germania Ovest (magari in possesso di armamenti nucleari), nonché alla pressione della leadership tedesca orientale. Quest’ultima riteneva ormai intollerabile la relativa facilità con cui un numero crescente di persone, tra cui molti tecnici e professionisti altamente specializzati, varcava i labili confini interni alla città per ottenere immediato asilo nell’altra Germania.

La condotta brutale di Krusciov nascondeva però ragioni più sottili. Sul piano formale, la questione tedesca era ancora regolata dagli accordi stipulati dai vincitori durante il vertice di Potsdam del 1945, che prevedevano la divisione dell’intera Germania in quattro zone d’occupazione e quella di Berlino in altrettanti settori, ma sotto una gestione congiunta della «città come entità unica». Si trattava di norme inesorabilmente obsolete nel momento in cui era sempre più diffusa l’inconfessabile percezione (e in alcune capitali occidentali persino l’auspicio) che la divisione della Germania fosse destinata a perdurare.

Il leader sovietico desiderava sfruttare la situazione di Berlino, ritenuta «anormale» anche dal presidente statunitense Eisenhower, per spingere Washington a intraprendere un dialogo su scala globale al fine di regolamentare la coesistenza competitiva tra le due superpotenze e di contenerne i rischi. Lo dimostrò il definitivo ritiro dell’ultimatum in cambio dell’invito ufficiale a Krusciov negli Stati Uniti (il primo a un leader sovietico) per una serie di incontri con Eisenhower che ridimensionarono Berlino a una questione limitata e risolvibile con mezzi pacifici, a fronte della vera urgenza di gestire la questione atomica. Krusciov fece ritorno in patria con la convinzione, certamente esagerata ma non del tutto infondata, che gli incontri avessero posto le basi di un negoziato ad ampio spettro in cui inserire il risultato minimo del riconoscimento occidentale della Repubblica democratica tedesca, o addirittura quello massimo del ritiro delle truppe alleate da Berlino (destinata a un qualche status di «città libera»). Tuttavia, il dialogo era nato con un’amministrazione ormai al capolinea e soprattutto fu interrotto bruscamente l’anno seguente, quando un aereo spia statunitense fu abbattuto in pieno territorio sovietico e il suo pilota arrestato. L’incidente portò alla cancellazione di un vertice quadripartito già in programma a Parigi, ma non delle speranze sovietiche di riannodare le fila del discorso con la nuova amministrazione prossima a insediarsi: quella del presidente John Fitzgerald Kennedy.

Non pochi osservatori dai circoli governativi di Washington guardavano con apprensione all’esodo tedesco orientale attraverso Berlino come a un fattore di perenne destabilizzazione e si chiedevano perché i sovietici non vi ponessero un freno con “qualcosa di simile a un muro”

Nel giugno del 1961, a Vienna, i due leader ebbero la prima occasione di un confronto personale, che però si risolse in uno dei più disastrosi summit dell’intera Guerra fredda. Le aspettative sovietiche furono deluse dalla proposta di Kennedy di congelare indefinitamente la questione tedesca, per lavorare piuttosto al miglioramento di altre situazioni pericolose per la pace mondiale. Krusciov interpretò la dichiarazione come un incomprensibile passo indietro, persino insultante rispetto alle aperture precedenti, e replicò imprimendo ai due giorni di discussioni toni violenti che scioccarono la delegazione statunitense (particolarmente colpita dalla ripetizione per tre volte del termine «guerra», in violazione dei canoni diplomatici). In conclusione, di fronte all’indisponibilità occidentale a negoziare un nuovo trattato per la Germania e Berlino, Krusciov rilanciava i termini dell’ultimatum del 1958, questa volta aggiornato al dicembre 1961. Tuttavia, dalla filigrana degli incontri emergeva una via di fuga offerta (non è chiaro quanto consciamente) da Kennedy, il quale ribadiva più volte che i sovietici erano liberi di fare quanto volevano all’interno della loro area di occupazione, fintantoché i diritti statunitensi su Berlino Ovest fossero rimasti intatti. L’attenzione della nuova amministrazione, infatti, era pienamente rivolta a ribadire la presenza statunitense nel mondo a difesa degli alleati e della loro libertà, a cominciare dall’avamposto di Berlino Ovest; al contempo, non pochi osservatori dai circoli governativi di Washington guardavano con apprensione all’esodo tedesco orientale attraverso Berlino come a un fattore di perenne destabilizzazione e si chiedevano perché i sovietici non vi ponessero un freno con «qualcosa di simile a un muro».

Lontano dai riflettori del vertice, Krusciov dimostrò realismo nell’evitare di mettere Kennedy con le spalle al muro, scatenando inevitabilmente un conflitto armato. D’altro canto, l’impegno all’azione già preso più volte doveva essere onorato per evitare una perdita di prestigio; senza contare le crescenti pressioni tedesche orientali di fronte a un ulteriore aumento dell’esodo verso Occidente. Soltanto all’inizio di agosto Krusciov concesse il via libera alla costruzione di un muro da parte delle autorità di Berlino Est, con il severo ammonimento di non andare «un millimetro oltre», ossia di non pregiudicare né fisicamente né politicamente le prerogative occidentali a Berlino Ovest.

La mattina del 13 agosto 1961 la notizia della costruzione del muro raggiunse Kennedy in vacanza sul suo yacht. Il presidente commentò che, pur non trattandosi di una soluzione gradevole, era «decisamente migliore di una guerra», anche perché segnalava la definitiva rinuncia sovietica a impadronirsi della parte occidentale. Per tale ragione, la reazione degli Alleati occidentali si limitò a una tardiva nota di protesta che parve subito insufficiente a molti in Germania Ovest e in particolare a Berlino. La precipitosa visita del vicepresidente Lyndon B. Johnson, accompagnato da 1.500 nuove unità militari destinate a rimanere, non fu sufficiente a placare la piazza berlinese, che attraverso striscioni e cartelli ammoniva: «Con la carta non si arresta nessun carro armato». In questo contesto, il celebrato viaggio di Kennedy a Berlino del 1963 avrebbe assunto piuttosto il senso di un gesto riparatorio, quando ormai la popolazione occidentale era rassicurata sul perdurare dell’impegno statunitense e sull’assenza di rinnovate minacce alla propria libertà, paradossalmente anche grazie alla costruzione del muro.

Tutti soddisfatti, quindi? Al contrario. Dal lato degli scontenti non c’era soltanto una parte consistente dei cittadini della Repubblica democratica tedesca, sottoposti a un regime sempre più repressivo e privi ormai anche del miraggio di una fuga a Ovest. Molti osservatori notarono immediatamente come sia la chiusura del traffico intracittadino, sia l’insistenza statunitense sulla difesa di «Berlino Ovest» costituissero già una modifica sostanziale degli accordi alleati, avvenuta per via di fatto e senza alcuna garanzia legale. In tal modo, la situazione più complessa dell’intera Europa rimaneva ostaggio della buona volontà dei responsabili e sprovvista di regole chiare.

Vi fu anche chi sottolineò immediatamente la totale assenza di coinvolgimento dei governi europei nell’intera vicenda; una situazione replicata un anno più tardi, in occasione della già citata crisi di Cuba. All’epoca, peraltro, fu impossibile non comparare la risolutezza della Casa Bianca e la disponibilità alle più estreme conseguenze nel momento in cui la minaccia si avvicinava concretamente al territorio statunitense, a fronte delle ben più blande risposte quando il pericolo riguardava il cuore dell’Europa divisa.

Il Muro segnalava una realtà ormai innegabile: il tentativo di cambiarla pacificamente nel lungo periodo doveva passare attraverso il suo riconoscimento formale. Nel frattempo, era necessario lavorare per rendere il muro “più poroso” e la divisione più sopportabile per il popolo tedesco

Infine, l’atteggiamento statunitense fu sottoposto a forte critica da parte del borgomastro di Berlino, Willy Brandt, che non esitò a lamentare l’inazione in una dura lettera a Kennedy già il 16 agosto del 1961. Sebbene le foto del 1963 lo ritraggano sorridente e deciso a fianco del presidente statunitense, Brandt aveva ormai intrapreso un ripensamento del suo approccio politico alla questione tedesca. Era tempo che le autorità della Germania Occidentale prendessero atto che i loro interessi potessero non collimassero totalmente con quelli statunitensi, e che per il loro avanzamento fosse necessario un rinnovato protagonismo e una condotta internazionale più assertiva. Inoltre, il Muro segnalava una realtà (quella della divisione tedesca) ormai innegabile: il tentativo di cambiarla pacificamente nel lungo periodo doveva passare attraverso il suo riconoscimento formale. Nel frattempo, era necessario lavorare per rendere il muro «più poroso» e la divisione più sopportabile per il popolo tedesco, se necessario anche negoziando con l’altro Stato tedesco che non aveva più senso ignorare. In quei giorni del 1961 iniziava così a maturare il disegno della «Nuova Ostpolitik» che quasi un decennio più tardi Brandt avrebbe condotto da ministro degli Esteri e poi da cancelliere, modificando in modo definitivo i termini della questione tedesca e includendo non a caso un nuovo accordo destinato a migliorare dal 1973 le condizioni della vita a Berlino. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia: sul piano politico, certamente la più rilevante tra le tante nate all’ombra del Muro.