“Quando gli uomini muoiono, entrano nella storia. Quando le statue muoiono, entrano nell’arte”, scriveva Alain Resnais, ma il loro valore e il loro significato non sono tanto una questione di estetica quanto, il più delle volte, di circostanze.
È il 16 agosto 1972 quando, al largo di Riace, un sub, a pochi metri di profondità, ritrova per caso due bronzi; la notizia passa quasi in sordina sui media locali, senza alcun riscontro su quelli nazionali e tanto meno sulla stampa internazionale. L’urgenza di ripulire le superfici e di stabilizzare la conservazione del bronzo prevalse sulla necessità, ritenuta secondaria, di guardare alle due statue come capolavori. Ci vollero otto anni perché il mondo si accorgesse di loro, a seguito di una mostra improvvisata, poco pubblicizzata e dall’infelice titolo: I grandi bronzi di Riace: un restauro archeologico, che ne determinò per sempre il codice identificativo.
Oggi, a cinquant’anni dalla scoperta, i Bronzi, con la B maiuscola ma ancora senza nome, godono di fama mondiale, e hanno assunto il ruolo di scoperta archeologica per antonomasia. Sono diventati un mito. Ma che cos’è un mito, oggi? Alla sua stessa domanda Roland Barthes rispondeva che il mito è una parola, un sistema di comunicazione, un messaggio. I miti d’oggi nascono da uno stato di cose evidente e innegabile, da una cultura consumistica immediatamente percepibile come fenomeno diffuso: sono, in definitiva, un prodotto culturale che permette di soprassedere alle differenze.
È la mattina dell'8 novembre quando l’Ansa batte la notizia di un ritrovamento archeologico a San Casciano dei Bagni, nel territorio di Siena, subito definito eccezionale, se non addirittura miracoloso. “La scoperta più importante dai Bronzi di Riace e certamente uno dei ritrovamenti di bronzi più significativi mai fatti nella storia del Mediterraneo antico”, commenta a caldo Massimo Osanna, direttore generale dei musei dello Stato. La risonanza è immediata e globale, le parole e le immagini che rimbalzano nei notiziari sempre le stesse.
La risonanza è immediata e globale, le parole e le immagini che rimbalzano nei notiziari sempre le stesse. “Come Riace”, “una scoperta che riscrive la storia” e così via. Tanti i titoli dei giornali – ripresi dai media di tutto il mondo – che senza indugio mettono questa scoperta in relazione a quella dei Bronzi
“Come Riace”, “una scoperta che riscrive la storia” e così via. Tanti i titoli dei giornali – ripresi dai media di tutto il mondo – che senza indugio mettono questa scoperta in relazione a quella dei Bronzi. Del resto, ormai accreditati testimonial di una italianità da propaganda, alla stregua del David di Michelangelo, fanno parte, come il David, dell’immaginario comune, ridotte a icone pop declinate secondo le più libere interpretazioni. Chiamarli in causa nella trasmissione della notizia ha un effetto di amplificazione istantaneo, capace di generare un flusso di emotività incontrollata per una scoperta indubbiamente strepitosa, almeno nel senso etimologico più stretto, vale a dire “che produce molto rumore”.
Se la sospensione d’incredulità è uno dei presupposti alla base di ogni narrazione (Coleridge), è significativa l’apparizione, tra le immagini che passano velocemente sugli schermi e sui diversi profili social, di uno scatto che immortalerebbe non una delle statue riemerse dal fango dei Bagni di San Casciano, ma un prodotto dell’intelligenza artificiale. Una elaborazione realizzata dall’artista Fabrizio Ajello, che nei suoi lavori indaga le dinamiche di rimediazione e diffusione nel funzionamento dei social media contemporanei. Postata poche ore dopo la notizia sui profili Facebook e Instagram dell’artista, l’immagine mostra un giovane corpo all’apparenza di bronzo, vestito e disteso nel fango con le braccia aperte. L’unica indicazione è l’hashtag #trovate. Una traccia ambigua che non fa cenno esplicitamente ai reperti di San Casciano, tuttavia chiamati in causa in maniera subliminale da una serie di dettagli e dall’uso stesso del plurale; ma anche, più sottilmente, che potrebbe voler significare “trovate l’errore”, visto che la mano destra della pseudo scultura ha sette dita. Nelle ore successive l’immagine del giovane polidattilo diventa virale.
L’evocazione dei Bronzi di Riace e l’ambiguità dello scatto artificiale sono, a ben guardare, il frutto di uno stesso sistema comunicativo. Forma virtuosa di propaganda, da un lato, e strategia di promozione, dall’altro, sembrano infatti fare riferimento, in entrambi casi, a una stessa tattica. Facendo uso di richiami che si trovano ai margini della nostra alfabetizzazione culturale – cose di cui abbiamo sentito parlare ma di cui non sappiamo molto – il loro messaggio ci attira in una zona d’ombra, dove le cose mostrate scivolano dal reale al metaforico con una fluidità disarmante. In questa dinamica, la finzione stessa acquista un valore, perché essa non è che un modo singolare di cogliere e interpretare la realtà (Rancière). Il giovane polidattilo, prima che vero, è spettacolare e, pur in mancanza di prove, capace di spostare l’attenzione su analogie suggestive. Così come il riferimento ai Bronzi, tanto netto e immediato, non può che risultare un détournement mediatico, una sorta di contro-citazione capace di attribuire un valore riconoscile e accettato attraverso la deviazione di una frase o di un’immagine in un altro contesto.
Al di là delle dovute differenze tra la fake manipolata e il richiamo ai Bronzi, viene da chiedersi quali siano le effettive corrispondenze tra le due scoperte e quali gli esiti in termini di ricezione collettiva, di cui la produzione del falso costituisce certo una sintomatica conseguenza. Come a Riace, anche a San Casciano si tratta di statue in bronzo, ventiquattro, cinque delle quali alte quasi un metro, una mensura honorata, secondo Plinio, che corrisponde a tre piedi romani, sufficiente a elevarsi sopra gli altri mortali, ma ben lontana dai maestosi sei piedi dei due bronzi calabresi. Le figure, che appaiono subito integre, per lo più, e in ottimo stato, sono sgorgate, è il caso di dirlo, insieme a migliaia di monete e molti altri bronzi più piccoli, da un deposito votivo venuto alla luce nell’ambito degli scavi archeologici del Bagno Grande, l’antica vasca della sorgente termo-minerale di San Casciano.
Dono dell’acqua, come a Riace, le statue di San Casciano non sono però un ritrovamento fortuito, ma l’esito, forse insperato, di una campagna programmata già nel 2018 come iniziativa congiunta del Comune, che ne detiene la concessione, e della Soprintendenza di Siena, Grosseto e Arezzo. “Entrammo in un orto privato” – racconta Emanuele Mariotti, direttore del cantiere – accanto alle due grandi vasche pubbliche costruite dai Medici secoli fa, “e vedemmo una cosa che non si vedeva dalla parte dei vasconi, due colonne inserite in un muretto di siepe”. Così, quasi come nella parabola del campo, il Comune va e acquista il terreno e nel 2019 avvia lo scavo, a cui partecipano ogni estate docenti, dottorandi e studenti delle università italiane di Siena, Pisa, Firenze, Sassari e Roma, del Trinity College di Dublino e dell'Università di Cipro, insieme ai volontari dell'Associazione archeologica "Eutyche Avidiena”. La direzione scientifica è affidata agli archeologi Jacopo Tabolli, dell’Università per stranieri di Siena e Ada Salvi, della Soprintendenza, mentre al Mariotti per conto del Comune è affidata la direzione dello scavo.
Questo imponente dispiegamento di forze riporta alla luce, nell’estate 2020, le vestigia di un santuario romano dedicato alle sorgenti termali e alle loro proprietà salutari. Luogo di culto e di cura, era costituito da una serie di piscine per le immersioni, naturalmente ribollenti, da fontane per acque da bere, disposte su terrazze digradanti e da spazi per l’assistenza e per la preghiera. Centro di gravità rituale era una grande vasca sacra, sul cui bordo dovevano stare accuratamente esposte, le statue ex voto, le più rilevanti in bronzo ancorate ad eleganti blocchi in travertino. A più riprese e per motivi diversi le sculture venivano staccate dal bordo della vasca e depositate sul fondo, presto inghiottite dalla melma chiara dei fanghi termali. Dunque, niente a che fare con la casualità drammatica dell’abbandono in mare dei due grandi bronzi, forse gettati fuoribordo per alleggerire il carico ed evitare un naufragio, ritrovati, altrettanto, casualmente dopo duemila anni lungo il litorale calabrese.
Il santuario esisteva almeno dal III secolo a.C. e gli atti votivi si perpetuarono fino al IV secolo d.C.; prima di essere abbandonato, fu smantellato con cura e il grande accumulo di ex voto, custodito nella vasca, coperto da fitte tegole; le pesanti colonne del portico, distese con ordine, ne suggellarono la chiusura definitiva. Rimossa questa copertura, gli archeologi hanno potuto posare gli occhi su un tesoro, la cui intatta stratigrafia consegna loro i termini di una storia che potranno raccontare, diversamente da quella dei Bronzi, naufragata per sempre con la nave. Il valore non è un dato assoluto ma la costruzione di un modo di vedere. “Un oggetto è morto quando lo sguardo vivente che si era posato su di lui è scomparso”; a Riace fu resuscitato da quello estraneo e involontario della folla, a San Casciano da quello incredulo e fiero di un manipolo di “cavalieri che fecero l’impresa".
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