Turchia, un partner necessario. Sabato 30 luglio a Köln oltre trentamila persone hanno preso parte a una manifestazione a favore del governo turco e di condanna del tentato golpe delle scorse settimane. La manifestazione è stata preceduta da numerose polemiche: al rifiuto della polizia di concedere la possibilità di proiettare un video dal palco (verosimilmente un messaggio di Erdoğan), gli organizzatori hanno fatto ricorso prima al tribunale amministrativo di Köln (che ha concesso la possibilità di usare un proiettore ma esclusivamente per mostrare immagini di persone fisicamente presenti alla manifestazione) e poi alla Corte di Münster, la quale ha chiarito che negare la parola a un capo di Stato straniero non si configura come una lesione dei diritti fondamentali per i manifestanti; inoltre, ha aggiunto che i rapporti con i capi di Stato stranieri sono oggetto della politica estera che è competenza esclusiva della Federazione. Un successivo ricorso alla Corte costituzionale è stato respinto per motivi formali. La manifestazione è stata un successo per gli organizzatori, non ci sono stati scontri o problemi per la sicurezza ma alcuni ministri turchi che hanno condannato la decisione della Corte tedesca.
Le incomprensioni tra l’Unione europea e il presidente Erdoğan acquistano in Germania un peso particolare anche perché quella turca è, in Germania, la comunità più numerosa: sono circa un milione e mezzo i turchi residenti nella Repubblica federale, e si arriva a quasi tre milioni se si considerano anche tutti quelli che hanno almeno un genitore turco. Si tratta di una comunità discretamente integrata: di origine turca sono persino diversi parlamentari – ad esempio Cem Özdemir, il segretario dei Grünen – sebbene si registrino ancora problemi nel successo scolastico di molti bambini e ragazzi. Notevoli sono anche i rapporti economici tra i due Paesi: la Turchia è tra i primi venti paesi per scambi commerciali con Berlino, la Germania è la destinazione principale delle esportazioni di Ankara e l’«Handelsblatt» riporta la cifra di circa 6.500 imprese con partecipazione tedesca che operano in Turchia (lo sviluppo risale agli ultimi anni: nella metà degli anni Novanta erano appena 500). Gli eventi successivi al fallito colpo di Stato hanno ulteriormente complicato i rapporti con la Turchia e, come i fatti di Köln dimostrano, anche con la cospicua comunità in Germania.
Sin dall’inizio il governo tedesco e la cancelliera Merkel hanno cercato di mantenere un profilo basso, condannando il golpe ed evitando dichiarazioni unilaterali contro il governo turco. A ragione: si tratta di garantire un canale aperto con un importante vicino, con il mondo musulmano e con la stessa possibilità di costruire relazioni distese con l’Islam politico, che trova nell’Akp di Erdoğan una sua manifestazione moderata.
Proprio dopo la manifestazione di Köln, il ministro degli Esteri tedesco Steinmeier ha ribadito che la possibilità di rimuovere l’obbligo del visto per i cittadini turchi deve sottostare alle condizioni che erano state congiuntamente approvate dell’Ue e dalla Turchia nel marzo scorso (condizioni che non sono state ancora soddisfatte e, pertanto, «la Turchia ha ancora tanto da fare»).
La risposta di Steinmeier, per il quale la reintroduzione della pena di morte avrebbe come conseguenza la sospensione delle trattative per l’ingresso nell’Ue, arriva dopo che la Turchia ha ufficialmente chiesto di definire una scadenza certa per l’eliminazione dell’obbligo del visto, senza la quale il governo di Ankara potrebbe mettere in discussione l’accordo sui rifugiati.
La richiesta di Ankara non sorprende: la Turchia, nonostante i proclami spesso fuori misura dei suoi vertici, è interessata all’ingresso nell’Unione e, ancor più importante, a sentirsi parte della koinè europea. Del resto, Erdoğan deve comunque fare i conti con la fine dell’eccezionale crescita economica degli anni passati e con una certa diffidenza degli investitori internazionali, i cui impegni sono calati del 20% tra il 2010 e il 2015; sempre l’«Handelsblatt», che dedica la copertina del 3 agosto proprio a Erdoğan e ai rischi di un blocco degli investimenti, parla di un certo nervosismo nell’economia che (ci si augura) dovrebbe far riflettere il presidente turco. Tuttavia, la Turchia non accetta di essere trattata come un partner minoritario sotto costante giudizio.
La prudenza del governo tedesco suggerisce una buona strada ma risulta ancora guardinga nei confronti del governo di Ankara, che ha appena superato una fase molto delicata nella quale erano in gioco le sue stesse istituzioni. Molti dei presenti alla manifestazione di Köln hanno ribadito di non essere dei sostenitori di Erdoğan ma di voler difendere la democrazia turca: è un aspetto che pare non essere molto considerato, persino sulla stampa tedesca. Il fallimento del colpo di Stato si deve alla scelta del popolo di schierarsi immediatamente contro i golpisti: la circostanza opposta ha permesso in Egitto al generale al-Sisi di poter trionfare contro il presidente eletto Mursi. Proprio la vicenda egiziana sembra essere scomparsa dai media, mentre è, invece, presente nei discorsi di molti musulmani che vedono un presidente eletto democraticamente dipinto come un criminale: non stupisce che queste persone ritengano che gran parte dei governi europei sperasse nella riuscita del golpe. Ed è proprio questa idea che va contrastata con ogni mezzo.
Correttamente, Angela Merkel, sin dalla prima telefonata avuta con Erdoğan dopo il golpe, ha parlato della necessità di garantire una risposta contro il golpe efficace ma anche misurata (verhältnismäßig). Si tratta di una giusta richiesta: tuttavia, dall’Ue ci si aspetta maggiore fiducia verso un Paese che ha circa venti milioni di giovani tra i 18 e i 30 anni, i quali guardano inevitabilmente all’Europa. Ecco perché un primo passo sarebbe concludere positivamente i negoziati per il superamento del visto di ingresso per i cittadini turchi.
Riproduzione riservata