Se non fosse che la struttura amministrativa, la storia politica e il tessuto sociale della Colombia sconsigliano la comune pratica di prendere le elezioni locali come “sondaggio” sul gradimento del governo in carica, verrebbe da interpretare la sfilza di sconfitte dei candidati del “Pacto Histórico” alle elezioni comunali e dipartimentali (regionali) del 29 ottobre come una bocciatura senza appello dell’operato del governo di Gustavo Petro. E forse, in realtà, non è poi un grande azzardo, se a dirlo sono i colombiani stessi.

Il verdetto delle urne, del resto, è stato chiaro: il “Pacto Histórico” ha perso le comunali in alcune delle principali città (Bogotà, Cali e Medellín) e dipartimenti del Paese, cadendo in modo particolarmente fragoroso proprio nella capitale Bogotà, con l’ex senatore Gustavo Bolívar travolto dal liberale Carlos Fernando Galán e la sindaca uscente Claudia López (con la quale era già ai ferri corti – tra le altre cose – per un’annosa querelle relativa alla nuova metro che dovrebbe attraversare la città) a sbeffeggiarlo a mezzo social. A beneficiare di questa débâcle è stato proprio il partito liberale (storico partito della destra colombiana insieme al partito conservatore), che ha prevalso nei dipartimenti di Chocó, Risaralda e Atlántico, ma a ben vedere a farla da padrone sono stati movimenti indipendenti e coalizioni, vittoriosi in gran parte degli altri dipartimenti. Il fatto che, come suggeriscono alcune mappature dell’orientamento ideologico, diversi di questi siano di orientamento progressista indica che non vi è stato un crollo generalizzato della sinistra, anzi: almeno a livello dipartimentale, la transizione verso sinistra che ha preso slancio a partire dall’accordo di pace del 2016 sembra avanzare, pur se a passi più lenti di quanto facesse pensare il trionfo di Petro nel giugno 2022.

In linea con la tendenza globale di disaffezione alla politica, anche in Colombia è aumentato l’astensionismo, passato dal 39,44% di quattro anni fa al 40,91% di questa tornata

Inoltre, in linea con la tendenza globale di disaffezione alla politica, anche in Colombia è aumentato l’astensionismo, passato dal 39,44% di quattro anni fa al 40,91% di questa tornata. Il partito del presidente ha retto solo nel dipartimento di Nariño, al confine con l’Ecuador, che sarà governato da Luis Escobar. Ad Antonio Nariño (uno dei padri della patria, redattore della costituzione del 1821) è intitolata anche la residenza del presidente della Repubblica, la “Casa de Nariño” di Bogotà, presa idealmente a picconate anche da mani amiche. A sommare al danno la beffa, infatti, Petro è stato scaricato ai microfoni della stampa da un suo ex uomo di fiducia come Armando Benedetti, una delle menti della campagna presidenziale del 2022.

Giudicare i primi 15 mesi del governo Petro è difficile, a maggior ragione in un Paese come la Colombia in cui forze eterogenee e contrastanti si scontrano non solo a colpi di proclami e proposte di legge nell’arena politica istituzionale ma anche, fucile alla mano, nei teatri molto più cruenti della foresta amazzonica e dei páramos andini, in cui rimangono attive le dissidenze delle Farc-Ep e altre formazioni armate. Un degno resoconto della condotta politica di Petro richiederebbe una trattazione prolungata e articolata che va oltre la portata di questo articolo: con tratto impressionistico, si può sostenere che gli ambiziosi propositi di mettere in atto la cosiddetta “pace territoriale”, combattere la deforestazione, attuare un’efficace riforma agraria (la dotazione della “Agencia Nacional de Tierras” è stata considerevolmente incrementata a questo scopo) e accelerare la transizione energetica non siano stati accompagnati da corrispondenti capacità di concretizzare tali ambizioni, né di rispondere adeguatamente agli attacchi a mezzo stampa dei media “di sistema” (per i quali l’arresto del figlio Nicolás Petro per riciclaggio è stato un assist al bacio, pur se il padre si è sempre correttamente rimesso al verdetto degli organi giudiziari) o di far trasparire i successi concreti conseguiti nel primo anno e mezzo scarso al timone del Paese sudamericano. A dimostrazione di tali titubanze ci sono i numerosi rimpasti del gabinetto, che hanno visto avvicendarsi ministri e ministre poco collaborativi o molto contestati con altri più concilianti, ma non per questo più incisivi.

In questa sede vogliamo però concentrarci su uno dei dibattiti che possono aver gravato sui risultati elettorali: quello sulla guerra in Medioriente. Un dibattito che – come e più che in altri Paesi – ha rinfocolato il clima sociale e politico nelle ultime settimane, con la sostanziale differenza che in Colombia è avvenuto al culmine della campagna elettorale.

Solo nei primi quattro giorni a partire dalla strage compiuta da Hamas, Petro ha pubblicato oltre 100 tweet in merito al conflitto. Tra strali rivolti all’occupazione israeliana e appelli alla pace, il presidente ha paragonato Gaza a un campo di concentramento, parlato a chiare lettere di genocidio, minacciato la sospensione delle relazioni con Israele e manifestato il suo sostegno all’indagine della Corte penale internazionale sui crimini di guerra commessi dall’esercito israeliano. Dalle parole è poi passato ai fatti, richiamando l’ambasciatrice colombiana in Israele (provvedimento preso anche da Boric in Cile, mentre la Bolivia ha direttamente interrotto le relazioni diplomatiche). In tutto questo, non ha fatto mancare una bordata all’Occidente neocoloniale: “L’Occidente difende i suoi livelli di consumo e i suoi standard di vita basati sulla devastazione dell’atmosfera e del clima, e per difenderli, sapendo che ciò provocherà un esodo dal sud al nord, e non solo del popolo palestinese, è pronto a rispondere con la morte”. Insomma, un attacco frontale che ci si sarebbe potuti aspettare da leader postcoloniali del calibro di Sankara o Sukarno, non certo nel clima abbottonato e moderato delle sinistre-placebo del XXI secolo. E se un tale impeto “guevariano” può accrescerne ulteriormente il gradimento presso gli estimatori nazionali e internazionali, che di quei tweet apprezzano coerenza e coraggio, alcuni in patria temono che gli atteggiamenti sfrontati del “presidente X” possano avere effetti deleteri sulla proiezione esterna e sui rapporti internazionali, tanto diplomatici quanto commerciali, del Paese. Per cominciare, Israele ha sospeso l’esportazione di forniture belliche a Bogotà (nello specifico si tratterebbe di munizioni per fucili d’assalto Galil e caccia Kfir, oltre a importanti equipaggiamenti di intelligence).

Ma quali possono essere state le ragioni profonde di queste uscite sulla piattaforma social? I conti in sospeso di Petro, ex guerrigliero della formazione M-19, con gli uomini d’arme israeliani risalgono almeno agli anni Ottanta, quando il mercenario ed ex militare israeliano Yair Klein addestrò tanto i gruppi paramilitari colombiani quanto le milizie del narcotraffico guidate da Pablo Escobar e Gonzalo Rodríguez, tutti avversari dell’M-19. Su Klein pende un mandato di estradizione colombiano che Israele non ha mai onorato. Non è da meno Rafael Eitan, ex generale delle forze armate israeliane che, dopo aver orchestrato il massacro di Sabra e Shatila nella guerra del Libano, si adoperò per far passare per le armi anche i guerriglieri colombiani, compresi quelli istituzionalizzatisi nella “Unión Patriótica”. Entrambi sono stati esplicitamente citati da Petro nei suoi post. Vale la pena di ricordare anche che nel 1982 lo stesso M-19 organizzò un attentato all’ambasciata israeliana di Bogotà in solidarietà con la causa palestinese.

Al di là delle ruggini personali del presidente, la situazione si presta a letture meno viscerali ma altrettanto plausibili: non è da escludere, infatti, che dietro all’apparente monomania di Petro ci sia l’intento di posizionarsi come leader di un gruppo di Paesi “non allineati” nel nuovo assetto mondiale multipolare. Se da una parte, durante il suo mandato, la Colombia ha intrattenuto rapporti sorprendentemente buoni con gli Stati Uniti, infatti, proprio nei giorni della recrudescenza del conflitto israelo-palestinese Petro è volato in Cina per una visita di Stato formalmente dedicata ad accordi commerciali (in particolare sull’esportazione di carne bovina e quinoa) ma certamente ricca di retroscena squisitamente politici con Xi Jinping. Avendo scorto uno spazio di manovra geopolitico di fronte al declino dell’egemonia euroatlantica, è possibile che Petro intraveda in un atteggiamento “muscolare” (con un pizzico di sano cerchiobottismo) un’opportunità di emancipazione in chiave anti-imperialista.

Il presidente punta a fare breccia sulle classi popolari mostrando un sostegno incondizionato a un popolo oppresso e discriminato, mettendo in conto l’eventualità di perdere il sostegno di parte dell’elettorato urbano borghese

La questione palestinese, inoltre, è uno dei temi che più di ogni altro rivelano lo stacco tra la visione delle classi dirigenti e dei media di sistema, più o meno acriticamente schierati in favore di Israele, e le relative società civili, meno propense a sostenere sforzi bellici, men che meno una nuova “guerra al terrorismo” da parte di Paesi con il controverso ruolino di marcia di Stati Uniti e Israele. Una tendenza non solo europea, come dimostrano il ritrovato fervore per la causa palestinese – almeno nelle dichiarazioni – della casa reale di Giordania e del presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi (più ambigua la posizione dell’Arabia Saudita), tutti fino a ieri impegnati nella normalizzazione dei rapporti con Tel Aviv. Proprio qui potrebbe celarsi un’altra delle chiavi di lettura dell’atteggiamento di Petro: il presidente punta a fare breccia sulle classi popolari – e magari anche su guerriglieri ed ex guerriglieri – mostrando un sostegno incondizionato a un popolo oppresso e discriminato, mettendo in conto, nel suo calcolo politico, l’eventualità di perdere il sostegno di parte dell’elettorato urbano borghese, presso il quale prevalgono equidistanza, indifferenza o aperto sostegno al sionismo. Ma queste sono speculazioni. Certo la scelta di intestarsi così risolutamente una causa così divisiva in periodo elettorale rimane bizzarra.

Forse, in definitiva, non è nient’altro che un’istantanea di Gustavo Petro: un politico coerente ma impulsivo, un idealista che carica a testa bassa a rischio di inciampare. Per ora ha fatto inciampare Bolívar e altri nomi di rilievo del suo “Pacto Histórico”, ma c’è chi sostiene che la lunga campagna elettorale in vista delle presidenziali del 2026 sia già iniziata.