C’erano un volta le emerging coalitions; c’era una volta la emerging coalition democratica. Ovvero, da un lato, l’idea che la democrazia americana e la sua configurazione politico-elettorale fossero figlie del comporsi, associarsi e strutturarsi di alleanze sociali e culturali: un’ipotesi attorno alla quale Seymour Lipset - uno dei più noti scienziati sociali del Novecento - radunò nel 1978 ventidue autori (tra giornalisti, accademici e practioners della politica) nel volume Emerging Coalitions in American Politics (Institute for Contemporary Politics). Si trattava di anni di ridefinizione degli equilibri politici, nei quali le coalizioni sociali e culturali che si coagulavano attorno ai candidati democratici e repubblicani erano in forte evoluzione (si pensi soltanto alla mobilitazione della destra religiosa della Moral Majority a fianco di Ronald Reagan).
Gli strategist democratici studiarono a lungo la lezione loro impartita dai repubblicani negli anni Ottanta, interrogandosi su quali fossero gli ingredienti necessari a stabilizzare una «contro coalizione», finendo per definirla attorno a «una forza lavoro molto culturalizzata da politiche della scuola e del retraining; in più, un multiculturalismo inclusivo che sottolineava i diritti di donne e minoranze», come scritto in un recente articolo di Maurizio Vaudagna apparso su questa rivista. In fondo, erano consci del fatto che la rottura dell’egemonia repubblicana nel 1992 - con la vittoria di Bill Clinton su George H. Bush - era dovuta anche alla presenza di un terzo candidato come Ross Perot, un miliardario populista e popolare che ottenne quasi il 20% dei consensi su base nazionale, favorendo Clinton in alcuni Stati chiave.
L’emerging coalition democratica, insomma, presentava delle fragilità. Alcune erano nascoste dal successo del centrista Bill Clinton come presidente della crescita economica dei Roaring ‘90s - gli anni del vittorioso dopo Guerra fredda, della globalizzazione economica a guida americana e della New Economy - ma permanevano evidenti nei successi dei repubblicani nelle elezioni di medio termine, quando i conservatori erano guidati da Newt Gingrich (uno degli attuali candidati a entrare nel gabinetto del presidente Trump). Quest’ultimo, aggressivo e ideologico, appariva vincente mantenendosi dentro il perimetro dello scontro tra coalizioni socio-culturali: un «polarizzatore» del conflitto politico americano.
Come rendere allora la coalizione democratica più forte, maggioritaria, dominante e capace di costruire un nuovo ciclo politico di vittorie elettorali? La domanda divenne ancora più assillante dopo la sconfitta alle presidenziali del 2000, quando Al Gore vinse il voto popolare senza ottenere la maggioranza dei grandi elettori. La risposta, successivamente, venne articolata da diversi strategist del campo democratico e venne costruita attorno a una specifica interpretazione dei dati socio-demografici del Paese.
L’America emergente - i cosiddetti millenials (i giovani), le minoranze (spesso occupate nel «terziario arretrato» dell’economia dei servizi e rappresentate dai nuovi sindacati, come la Seiu), il ceto medio secolarizzato dei centri urbani, le donne con un alto livello di istruzione - era destinata a divenire maggioranza del Paese, e poteva trasformarsi in maggioranza politica durevole attraverso l’azione coalizzante del partito democratico. Uno schema costruito, tra gli altri, da Ruy Teixeira, analista del Center for American Progress (il Cap é un think tank fondato nel 2004 da John Podesta, ex capo staff dell’amministrazione Clinton, direttore della campagna elettorale di Hillary Clinton nel 2016 e a capo del Transition Team dell’amministrazione Obama nel 2008), sulla base delle proiezioni demografiche dei principali istituti del Paese, quali il Census Bureau e il Pew Research Center.
Aiuta, in questo caso, raccontare la teoria dell’emersione della nuova coalizione democratica attraverso Teixeira, perché questi fu uno dei primi a rappresentarne le ragioni, pubblicando nel 2002 il volume The Emerging Democratic Majority (scritto assieme all’ex direttore di «New Republic» John Judis). Esattamente dieci anni dopo, quando Obama vinse le elezioni per il suo secondo mandato, Teixeira sostenne che la nuova coalizione democratica era lì per restare: dal 1988 al 2012 il peso delle minoranze tra gli elettori era aumentato del 13% (l’elettorato bianco era sceso al 72% del totale, destinato a scendere del 2% a ogni tornata elettorale) e si esprimeva nettamente a favore dei democratici; i cosiddetti professionals dei centri urbani e le donne, assieme ai giovani, erano anch’essi orientati a dirigere il proprio consenso verso il partito democratico, su una piattaforma più progressista di quella degli anni Novanta.
Il paradosso della sconfitta della Clinton é tutto qui: aver fatto proprio il programma politico della emerging coalition - con la piattaforma elettorale più a sinistra della storia americana del dopoguerra, alimentata dalle nuove domande che questi soggetti hanno posto a seguito della crisi economica, in parte diverse da quelle individuate da Texeira a metà dei Duemila - ma aver perso le elezioni. È stata abbandonata da una parte dell’elettorato di Obama negli Stati chiave e superata dalla capacità di mobilitazione di Trump nelle stesse contee, dove sono tornati al voto repubblicano quelli che un tempo si definivano i Reagan democrats, i quali sognano un difficile ritorno alla centralità sociale, politica ed economica come la possedevano durante l’età dell'oro della crescita industriale del Paese.
Le ragioni della sconfitta sono diverse e intrecciate tra loro, ovviamente. La candidata Clinton non poteva rispondere al desiderio permanente di mobilitazione contro l’establishment che attraversa l’America dal 2008, quando Obama vinse le elezioni contro il partito degli affari, della crisi finanziaria e delle guerre sbagliate (quello repubblicano), e le primarie contro i democratici legati alle vecchie lobby di Wall Street (la political machine dei Clinton, contro i quali Obama utilizzò una retorica da outsider non così lontana da quella di Sanders). La Clinton ha creduto - alcune analisi dell’utilizzo dei fondi elettorali compiute Stato per Stato lo suggeriscono - che il «muro» anti-Trump avrebbe retto all’assalto della rabbia alimentata dai repubblicani in alcuni Stati. Un muro basato sul contrappeso tra emerging coalition e il maschio bianco e arrabbiato (un contrappeso che tiene nel voto popolare), mentre venivano interpretate come debolezze - o affannose rincorse - le strategie di penetrazione di Trump in Stati tradizionalmente democratici come il Wisconsin, dove il neo-presidente ha speso nel mese di ottobre sette volte quello che ha impiegato la Clinton.
Sarà ora cruciale osservare quale strada prenderà il dibattito interno al partito democratico: non solo il conflitto di breve periodo, che ruoterà attorno all’assegnazione delle cariche all’interno del Congresso e di quella di presidente del Democratic National Committee, ma soprattutto la definizione di opzioni strategiche: il giornalista del «New Yorker» George Packer scriveva nella primavera di quest’anno che il candidato democratico «non può permettersi, né politicamente né moralmente, di escludere questi americani. Essi hanno bisogno di una politica che offra risposte oneste alle loro legittime richieste e li aiuti mantenersi lontani dal procedere ulteriormente in direzione dell’autodistruzione». Si riferiva, ovviamente, alla classe operaia e al ceto medio declinante bianco che ha votato per Trump oggi (e repubblicano, frequentemente, negli ultimi 35 anni).
La white working class tornerà al centro dell’agenda, quantomeno per la sua distribuzione in Stati tradizionalmente cruciali e di orientamento democratico? Si rafforzerà, al contrario, la strategia di rafforzamento del partito della emerging coalition che ha premiato sul piano del voto popolare, anche se essa significa affrontare ogni volta l’enorme fatica di Sisifo di portare al voto giovani e minoranze, ovvero segmenti di società che partecipano poco alla competizione elettorale? Si assumerà, in sostanza, il voto del 2016 come un (evitabile) incidente di percorso nella costruzione della nuova America o si tenterà una parziale inversione di rotta?
Tutto ciò avrà implicazioni sulle scelte che il partito democratico compirà nel Congresso, sulle proposte di politica economica che elaboreranno i democratici, sul giudizio sugli otto anni di amministrazione Obama, sulla strategia di opposizione a Trump. Sul quale ci si deve domandare come farà - con quale personale, strategie, politiche e campagne mediatiche – a mantenere intatta la sua immagine di ribelle contro il sistema. Dice Trump: «l’establishment, i media, gli interessi particolari, i lobbisti, i finanziatori delle campagne elettorali: sono tutti contro di me. Io la campagna me la finanzio da solo, non devo nulla a nessuno. Il mio unico debito è con il popolo americano». Quale, dei tanti popoli americani, otterrà davvero soddisfazione dal nuovo presidente? Quali aspettative verranno appagate, e quali deluse? Attraverso quali scelte si alimenterà il consenso?
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