In un tempo assai critico per le tradizionali forme di rappresentanza democratica, ci sono esperienze di impegno civico tutt'altro che banali. È il caso delle cosiddette transition towns. Ma che cosa deve intendersi, in questo contesto, per "transizione"? La transizione è sorta tra Irlanda e Inghilterra intorno al 2005, quando ciò che era nato da un corso universitario sulla permacultura (un modello di agricoltura sostenibile di orgine australiana) si trasformò in poco tempo in un esperimento più ampio: il tentativo di costruire comunità in grado di affrontare i problemi legati al riscaldamento globale e alla crescente scarsità di risorse.
In Italia il progetto arrivò prestissimo, in una cittadina di circa cinquemila abitanti tra i colli bolognesi, Monteveglio, dove si formò il primo gruppo di transizione "oltremanica". E dove l’arrivo della transizione venne ufficializzato nel 2009 con delibera comunale, nella quale il comune dichiarava di fare suoi i principi promossi dal movimento. Il riconoscimento da parte delle istituzioni, o anche solo la collaborazione informale con esse, influisce sulla capacità d’azione di un’iniziativa di transizione, non è però elemento indispensabile per il successo dell’iniziativa. Il movimento, infatti, non si basa su di una semplice scelta tra opposizione o collaborazione col sistema esistente, ma trae origine da una riflessione più profonda, che può essere illustrata da alcune delle domande fondative del progetto: perchè attendere dallo Stato risposte all’altezza di contrastare le crisi che ci troviamo di fronte invece di prendere noi stessi un’iniziativa? Perché non cogliere queste sfide, che riguardano la nostra quotidianità, per ricostruire comunità e stili di vita più rispettosi e resilienti?
Per trovare una risposta concreta a tali quesiti si stanno adoperando persone in diverse parti del mondo (si contano oltre 900 Iniziative ufficiali di transizione, più una galassia di gruppi collegati al movimento). Chi si concentra sull’interiorità, chi rivede stili di vita, chi lavora al rapporto con i vicini, la comunità, l’ambiente o le istituzioni, chi cerca modalità diverse di produrre, scambiare e consumare o anche di partecipare alla vita politica. All’interno della transizione convergono una miriade di intenti e tentativi che possono essere ricondotti anche ad altri movimenti contemporanei. La transizione, probabilmente gruppo glocal per eccellenza, rappresenta una delle tante realtà che spuntano nelle nostre società civili. Quanti nel mondo, oggi, cercano risposte a problemi globali condividendo sforzi e ideali e impegnandosi perché il cambiamento avvenga attraverso (e alla luce di) risorse locali? Cosa cambia e come? Tutto questo fermento modifica davvero la società in cui viviamo? E le nostre democrazie?
Nel tentativo di rispondere a quest’ultima domanda mi sono avventurato per iniziative di transizione in Australia (patria di importantissimi concetti impiegati dal movimento, uno su tutti la permacultura) e in Italia (terra che non a caso venne già scandagliata da scienziati sociali intenti a capire, per esempio, come funzionassero la nostra democrazia e le sue istitutioni). Down-under ho visitato una transizione in Tasmania (culla di un fondamentale movimento ambientalista, ma anche di un conservatorismo ben radicato) e nel West End di Brisbane (roccaforte dei progressisti dell’altro mondo). Nel bel Paese ho deciso di visitare la Transizione montevegliese (Emilia-Romagna, appunto) e un gruppo Transizionista siciliano. Nel mio zaino ho portato idee e discussioni provenenti dalla teoria della democrazia deliberativa, sempre più influente nel contesto della ricerca democratica. In particolare, ho scelto un’idea proveniente dal vivace dibattito sui sistemi deliberativi, ossia, la «capacità deliberativa» che, secondo il suo ideatore John Dryzek, descrive il grado in cui un sistema deliberativo, nella sua interezza o nelle sue parti, ospiti processi deliberativi autentici, inclusivi e consequenziali. La speranza è che i concetti connessi al più recente dibattito in teoria democratica possano interpretare, se non tutti, quantomeno alcuni dei cambiamenti in corso, capirne rilevanza e significati per chi a questi cambiamenti partecipa attivamente, ma anche per tutti gli altri. E allora mi chiedo: come tradurre concetti teorici, quali la «capacità deliberativa», in qualcosa di applicabile allo studio di ciò che sta accadendo nelle nostre comunità? Quale sarà la «capacità deliberativa» delle diverse iniziative di transizione? O meglio, che tipo di contributo queste iniziative forniscono alla vita democratica delle comunità in cui si trovano? Che cosa cambia da luogo a luogo? Secondo quali fattori?
È forse troppo presto per dire con quale successo gli strumenti della democrazia deliberativa riusciranno a interpretare ciò che avviene nella quotidianità dei sistemi in cui viviamo e, forse più importante, in che misura i cittadini di varie parti del mondo riusciranno a trasformare le loro idee in realtà e con quali conseguenze. Comunque, pur senza avventurosi pronostici, il dibattito è aperto e, se la miriade di iniziative che prendono forma nelle nostre società continuasse a crescere ai ritmi attuali, sarà difficile non tenerne conto.
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