L’Eldorado yankee. I 3.169 chilometri che segnano il confine tra Messico e Stati Uniti – nonostante le politiche restrittive, le leggi anti-immigrati (ultima, molto discussa, quella dell’Arizona) [vedi Lettere Internazionali del 23/07/2010], l’ampliamento del muro e la crescente militarizzazione – rappresentano uno dei confini più porosi del globo, sia in entrata sia in uscita.Negli Stati Uniti, su una popolazione che ha raggiunto i 312 milioni di abitanti, 42,8 milioni di questi sono immigrati (erano 22,4 milioni nel censimento del 1990) e fra questi, al primo posto, troviamo i messicani, seguiti dagli altri latinoamericani. I messicani legali residenti negli Stati Uniti sono 11,9 milioni. A questi va aggiunta la stima di 4 milioni di immigrati messicani clandestini. Il vero problema non consiste tanto nel dato quantitativo (i clandestini rappresentano il 4% del totale della popolazione), ma nella velocità in cui prendono forma i flussi provenienti da sud della frontiera. Nel solo periodo che va dal 2000 al 2005, l’immigrazione clandestina dal Messico è cresciuta infatti del 65%. Le statistiche però mostrano una realtà non sempre completa di quello che è avvenuto nel corso dell’ultimo decennio. Se, in qualche modo era normale percepire alcune città come tradizionalmente più “messicane”, tra le quali Corpus Christi (con il 46% della popolazione di etnia mexican), El Paso (66%) e San Antonio (52%), oggi anche metropoli lontane dalla frontiera contano percentuali di immigrati messicani sempre più cospicue: Los Angeles (27%), New York (17%) e Chicago (14%).

A cominciare dal 2008, con i primi segni della crisi immobiliare negli States, l’andamento dei flussi migratori, che fino al quel momento sembrava incontrollabile, ha subito una seria battuta d’arresto. Più che le espulsioni di massa o gli accordi bilaterali, ha inciso la crisi economica con le sue inevitabili ripercussioni sul mercato del lavoro a nord e a sud del Rio Bravo. La disoccupazione ha colpito in primis quei settori economici dove la presenza dei messicani risultava preponderante: è il caso dell’edilizia. Il settore della construction industry era composto, ancora nel 2008, per il 32,3% da operai messicani. La paralisi del settore ha espulso dal processo produttivo migliaia di immigrati messicani, molti dei quali sono ritornati in Messico o sono andati ad ingrossare le fila dei disoccupati, soprattutto nelle grandi aree urbane. La crisi economica oltre ad incidere negativamente sui flussi migratori, ha anche messo a dura prova il sistema economico messicano dove le rimesse degli emigranti rappresentano nella contabilità dello stato, la seconda voce di entrate dopo l’esportazione di petrolio.

Nelle statistiche mondiali infatti il Messico risulta il terzo paese per le rimesse degli immigrati, subito dopo la Russia e la Cina. L’incidenza delle rimesse sul totale del flusso monetario tra Messico e Stati Uniti nel 2007 raggiungeva il 55%. Dopo aver toccato la punta massima di 27.136 milioni di dollari nel 2007, le rimesse degli immigrati messicani dagli Usa sono passate a 26.304 nel 2008, a 22.153 nel 2009 con una lieve ripresa nel 2010 con 22.572. Le conseguenze di questa contrazione non si distribuiscono in modo uniforme sul territorio nazionale. La crisi si fa sentire maggiormente in alcuni stati, come Michoacán, dove le rimesse rappresentano il 10% del  PIL statale. La crisi economica ha aiutato indirettamente la stessa amministrazione Obama (alla cui elezione hanno contribuito in maniera determinante gli hispanics, se si considera che nelle presidenziali del 2008 il 67% dell’elettorato latino ha optato per il candidato democratico) nella difficile gestione della questione migratoria, facendo in modo che le ragioni dei mercati si allineassero su quelle delle politica, coniugando il bisogno di manodopera, il controllo del costo della stessa e la sicurezza nazionale. Quello che alla fine risulta estremamente mobile, oltre alla frontiera stessa, sono le sempre precarie politiche migratorie degli Stati Uniti.