Messico e nuvole. Per la prima volta dopo settantuno anni di governo, l’egemonia del Partido revolucionario institucional si è interrotta nel 2000 con l’elezione del presidente Vicente Fox, dirigente della Coca-Cola e rappresentante del Partito di azione nazionale. Che il PRI avesse ormai perso la spinta “propulsiva” e progressista,“rivoluzionaria”, è stato confermato alle presidenziali del 2006, ancora una volta vinte dal PAN, guidato dall’attuale presidente Felipe Calderón. L’alternanza, necessaria per garantire circolazione delle élites, maggiore accountability e crescenti livelli di partecipazione democratica, si è tuttavia dimostrata palesemente inadeguata e insufficiente ad affrontare taluni problemi “sistemici”. La disuguaglianza, nonostante i valori positivi del Pil fino al 2008, continua ad aumentare in maniera drammatica (primo Paese al mondo davanti a USA e Turchia. L’Italia è quinta). Ma, di converso, e forse pour cause, come certificato da Forbes, l’uomo più ricco del mondo è mexicano: si tratta di Carlos Slim proprietario (per niente originale) di reti televisive e telefoniche.
Una storia antica, e amara, da quando Emiliano Zapata, pur non conoscendo le tecniche di vanesi moderni “comunicatori politici”, con il celebre ¡Tierra y Libertad! racchiudeva un ambizioso, e quello sì rivoluzionario, manifesto politico: emancipare i diseredati. L’ardito ideale zapatista di rendere la terra ai contadini si scontrò con la realpolitik di Madero prima e Carranza poi, che da presidente lo fece assassinare. Tragico epilogo che toccherà a Pancho Villa, ai suoi dorados e al sogno di un socialismo vaquero, impegnati a fronteggiare un’improba lotta con le truppe di Carranza sostenute da generosi invii militari di W. Wilson. Prodromi di ingerenza umanitaria. Oggi, in sedicesimo, lo scenario è simile. Nel 1994, dallo Stato del Chapas parte una straordinaria mobilitazione popolare guidata dal sub-comandante Marcos, nel giorno in cui il Messico stipula – con USA e Canada – un trattato di libero scambio commerciale (Nafta). Diritti, dignità, difesa delle identità indigene. La lunga marcia del delegato zero e dell’EZLN da Aguacalientes alla capitale, nel 2000, si è conclusa con grande attenzione mediatica, ma pochi risultati sostanziali. Il mercato (del laissez-faire) ha vinto, Marcos è stato smascherato (letteralmente) e il marxismo da utopia è diventato mito, con improbabili leader della sinistra europea, in (laica s’intende!) processione tra la selva centro-americana, per sopperire a carenze progettuali. Il narcotraffico domina intere zone del nord, vicino agli yankees, utenti finali del mercato della tossicodipendenza nei quartieri ghetto e nelle suite dell’alta finanza. La violenza è all’ordine del giorno (recentemente è stato rapito un ex candidato presidenziale) nonostante il “calo” dei crimini, tanto che la disperazione alimenta pratiche di animismo, vudù e il rifiorire di riti para-pagani, come acutamente messo in luce dal reportage del National Geographic firmato da Alma Guillermoprieto. La religione e l’oppio del popolo. Non va meglio nella capitale, una (quasi) città/stato, per niente ellenica, con dieci milioni di abitanti che triplicano nella “cintura urbana”.
Un grande Paese, cospicue risorse e problemi enormi, che dipendono principalmente dalla politica e dal sistema istituzionale. Il presidenzialismo ha falle faticosamente contenute dai poteri del capo dello stato. Il rischio, recente, di maggioranze disomogenee tra presidenza e congresso (governo diviso), l’impossibilità di concorrere per un secondo mandato e l’elezione con maggioranza relativa comportano seri pericoli per la stabilità politica. Nel 2006, ad esempio, Calderón ha vinto con il 36% dei consensi, una manciata di voti (0,6%) in più del secondo candidato. Con conseguenze sulla legittimazione, l’autorevolezza e le capacità di guidare l’esecutivo e di contenere le esuberanze del congresso notoriamente assai vivace. Nonché, tratto tipico della tradizione politica, di indicare il successore, El Tapado, associabile con un’irriverente similitudine alla forma, giustamente caustica, in cui Prodi battezzò la candidatura di Rutelli nel 2001. Le istituzioni andrebbero riformate, introducendo l’elezione presidenziale diretta con ballottaggio chiuso, mentre una cospicua dose di federalismo renderebbe conto delle dimensioni sub continentali e di diversità territoriali e culturali a fronte di partiti oligarchici, familisti, baronali e patrimoniali. Una società multiforme, multipla. Contraddittoria e vivace. Sospesa tra tradizione e modernità. La “municipalità” di Città del Messico ha approvato i matrimoni gay, ma sono un ricordo sbiadito gli amori travagliati e scandalosi di Frida Kalo e Diego Rivera o l’effervescenza politica sorpresa dalla vigliaccheria stalinista che invia scherani a uccidere Trotzky. E le introspezioni surreali di Octavio Paz paiono l’ultimo lampo in una dinamica sociale marcatamente prosaica.
Nel sud Europa con tendenze populiste e autarchiche, il Messico appare lontano, troppo per essere oggetto di dibattito, ma le conseguenze di quanto lì accade hanno ripercussioni economiche, politiche e culturali sul sistema UE. Il Messico resta terra di emigrazione, con migliaia di desperados che tentano di varcare il confine statunitense, in molti casi trovando la morte nei pressi del Muro di Tijuana. Emigranti nei latifondi garantiscono, retribuiti miseramente, derrate di ortofrutta per pensionati milionari della California. Mentre l’Arizona ha approvato una legge che criminalizza l’immigrazione illegale. Imbarazzato, in conferenza stampa congiunta con Calderón in visita ufficiale a Washington, Obama ha segnalato di non avere i seggi necessari in Senato (60 su 100) per modificarla. Dunque, non solo siesta, chili con carne e spiagge soleggiate di Cancun. Turismo in massa. Seriamente, invece, c’è chi si prepara al prossimo appuntamento elettorale, tra meno di due anni: sotto il sole del Messico … a votar!
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