Aspettando il presidente. Il G20 dei ministri delle finanze e dei banchieri, tenutosi lo scorso 5 novembre a Città del Messico, ha ricondotto l'attenzione alla situazione politico-economica del Paese, dopo le presidenziali di settembre. La recente campagna elettorale, conclusasi con la vittoria del candidato del Partido revolucionario institucional (Pri), Enrique Peña Nieto, confermato “presidente electo” dal tribunale elettorale, ha infatti riportato alla luce la complessità del sistema politico messicano e la profonda pluriculturalità del Paese.
Se da un lato la candidata del Partido de acción nacional (Pan), Josefina Vásquez Mota, ex ministro degli Affari sociali e dell’Educazione, ha pagato lo scotto di una campagna debole, di un sostegno tutt’altro che entusiastico da parte del suo stesso partito, subendo lo scarso carisma del presidente uscente e lo spegnersi di un sogno di cambiamento afflosciatosi nel tempo; dall’altro, Peña Nieto, quaranticinquenne, sposato in seconde nozze con un’attrice di telenovelas, oratore limitato ma perfettamente telegenico, è sembrato incarnare un nuovo prototipo politico di inizio millennio. La sua fiducia nella tecnocrazia (miscelata però con il recupero di vecchi apparati burocratici e intellettuali del Partito), le ricette sul cambio di strategia nella guerra ai cartelli della droga (dopo cinque anni drammaticamente segnati da un bilancio di oltre 50.000 vittime) e gli inviti alla modernizzazione del sistema Paese, hanno solleticato i mercati (“The Economist” titolava, all’indomani del voto di luglio, The Pri’s Qualified Comeback) e al contempo lanciato messaggi subliminali di un ritorno possibile alla sicurezza del passato. Eppure il quadro resta composito. Un dato significativo è emerso per esempio dal netto, e niente affatto scontato alla vigilia, sorpasso del candidato della coalizione di sinistra (guidata dal Partido democrático revolucionario, Prd), Andrés Manuel López Obrador (detto Amlo), sulla Vásquez Mota (con il 32,4% contro il 26%, dietro al 39,1% di Peña Nieto). La strategia di Amlo è stata a suo modo classica per i parametri politici messicani. Pur affrancandosi da alcuni atteggiamenti radicali del 2006 (l’insistenza prolungata sulla mobilitazione di piazza contro “el fraude electoral” che aveva suscitato i timori della classe media), si è mantenuto lontano dagli stilemi delle nuove sinistre latinoamericane, tanto dai chavisti, quanto dai lulisti. Ha rievocato semmai i miti della sinistra nazionalista messicana (Zapata, Cárdenas e la difesa del petrolio nazionale), denunciando l’esistenza di un’alleanza “antipopolare” del Prian (Pri+Pan) e accusando Peña Nieto di essere una creatura virtuale dei media televisivi (come Televisa e Tv Azteca).
In attesa di vedere alla prova la nuova amministrazione (il passaggio dei poteri presidenziali è atteso per dicembre) un primo dato interessante scaturisce dai nuovi equilibri generatisi all’interno del Congresso, insediatosi in settembre, a cominciare dal disequilibrio tra i due rami, in entrambi dei quali la maggioranza che sostiene il Pri è insufficiente a portare avanti le riforme costituzionali (per le quali servono i tre quarti dei seggi). Alla Camera infatti il Pri, con 207 seggi (più i 34 del Partito verde), dovrà vedersela con la coalizione di sinistra (Prd, Partito del lavoro e Movimento democratico), con 137 seggi, che distanzia il Pan, rimasto invece seconda forza nazionale in Senato, con 38 seggi (contro i 52 del Pri e i 22 del Prd). Questa situazione, che aumenta il pluralismo parlamentare, costringerà il Pri a muoversi su due tavoli nella contrattazione politica, specie in ambiti delicati quali le riforme annunciate in materia fiscale, del lavoro, sociale ed energetica.
Un altro fattore rilevante, oltre i confini della contesa elettorale, è scaturito dalla presenza della società civile. Emblematico è parso a molti il caso del movimento Yo soy 132, capace di intercettare una buona fetta del mondo giovanile. Il nome si ispira agli studenti che avevano contestato il candidato priista a margine di un incontro nell’Università iberoamericana (legata ai gesuiti). Quando nei media si era minimizzata la loro protesta, definendoli porros (agitatori di professione), 131 studenti erano apparsi sui social network con tanto di nome e matricola, per testimoniare la propria presenza all’evento. Il movimento ha preso spunto da lì, dando vita a una sorta di indignados messicani, scesi in piazza per chiedere una politica più partecipata (i votanti del 1° luglio erano stati 49.087.446, il 63,1% degli aventi diritto), per appoggiare poi le nuove, subito frustrate, contestazioni di Amlo contro la regolarità del voto.
L’articolata capacità di mobilitazione dei messicani, anche fuori dai vecchi consorzi sindacali o agraristi, rappresenta oggi un fattore socialmente trasversale di cui il nuovo presidente dovrà tener conto. Questo varrà naturalmente anche nella relazione con i diversi Stati, dal momento che il Pri gode di una solida maggioranza in buona parte della Federazione, ma ha anche perso un bastione storico come il Tabasco e non è riuscito a insidiare la sinistra nel Distrito federal (dove si è confermato il Prd con Mancera). Al bivio resta l’incognita di quale Pri si siederà su quella “silla del aguila” di cui scriveva Carlos Fuentes; per citare due ruvidi film satirici di Erik Estrada: il partito di La Ley de Herodes, del potere pervasivo costruito dal basso, o quello di Un mundo Maravilloso, capace di calcolare la felicità delle persone solo sulla base di criteri macroeconomici?
In mezzo a tutto ciò vi sono però le relazioni con gli Usa, la sempre più decisiva lotta ai cartelli della droga, la gestione dei processi migratori, il commercio globale, il rilancio dell’occupazione, le esigenze e contraddizioni della crescita, ma anche, e soprattutto, i bisogni e le speranze di più di cento milioni di messicane e messicani, volti di un Paese complesso, a volte indecifrabile, ma comunque vitale.
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