Una calda estate di guerra. In sette anni di guerra in Iraq, i caduti tra i militari a stelle e strisce sono stati 4.419. Nel solo 2009 in Messico i morti accertati per il crimine organizzato sono stati 7.841. Nei primi sei mesi del 2010 siamo a quota 5.524. Tutto fa presagire che il macabro contatore quest’anno scorrerà più velocemente. L’estate che sta per terminare sarà ricordata probabilmente come l’estate più calda, se non dal punto vista meteorologico, perlomeno da quello della guerra al narcotraffico, dichiarata nell’ormai lontano dicembre 2006 dall’allora neopresidente Felipe Calderón. Il 29 luglio scorso rimane sull’asfalto a Guadalajara Ignacio “Nacho” Coronel, membro di spicco del cártel di Sinaloa. Il 17 luglio esecuzione di massa a Torreón, nello stato di Coahuila: 17 morti. Il 16 agosto sette morti a Oaxaca. Il 18 agosto viene ritrovato il corpo senza vita del sindaco di Santiago, piccolo comune nei dintorni di Monterrey. E via dicendo, l’elenco potrebbe facilmente continuare. Cosa sta succedendo? Che lettura dare di tutto ciò?
La guerra al crimine organizzato presenta, ad oggi, molte ombre e qualche luce. Tra queste ultime sicuramente l’aumento esponenziale di sequestri, da parte delle autorità, di armi e di veicoli. In crescita anche il numero delle detenzioni. Le carceri messicane, infatti, sono al limite del collasso, anche se la maggior parte dei detenuti sono piccoli delinquenti o comunque marginali all’interno dei relativi cartelli. Tra i punti critici si segnalano: l’elevato livello di corruzione tra coloro chiamati a combattere la guerra al narcotraffico - il che spiega anche il perché molte volte si abbia più paura della polizia che dei delinquenti - l’inefficienza dei servizi di intelligence e, fatto che potrebbe apparire strano, la mancata coordinazione tra i diversi livelli di governo, quello federale, statale e municipale. In realtà, parlare di mancata o scarsa coordinazione è un eufemismo. Il punto è che nessun governatore, la cui carica - vale la pena ricordarlo - dura sei anni e non è rinnovabile, superata la metà del proprio mandato si avventura in una lotta dal forte impatto mediatico ma dagli scarsi, se non controproducenti, risultati politici. Ultima considerazione è quella relativa al mercato internazionale della droga. Il confine tra Messico e Stati Uniti è lo snodo principale di tre grandi “affari”: il traffico di uomini in direzione sud-nord, il traffico di armi in direzione opposta e soprattutto quello di cocaina. In base ai dati prodotti dall’ultimo rapporto dell’United Nations Office on Drugs and Crime di Vienna, il giro d’affari relativo al traffico clandestino delle armi da fuoco si aggira intorno ai 20 milioni di dollari; quello dell’immigrazione clandestina è stimabile attorno ai 6,6 miliardi; infine quello della cocaina, tra sud e nord America, ha un volume d’affari di circa 38 miliardi. Nello stesso rapporto emergono altri due dati utili all’analisi della congiuntura attuale: la relativa contrazione della domanda di cocaina nel mercato degli Stati Uniti e la crescita della stessa nel mercato interno messicano. Probabilmente sono queste le due cause remote dell’acuirsi della violenza per le strade messicane.
La paura in Messico è sempre più distante dalla percezione sociale della stessa e dall’uso politico che se ne fa. Se l’esplosione di violenza negli ultimi tempi sembra lontana dalla paura liquida di Zygmunt Bauman, diverso è il discorso sul suo uso pubblico. È in corso in Messico un’altra guerra, quella che si combatte sul fronte dell’informazione. Héctor Aguilar Camín, giornalista, studioso e opinionista di spicco sostiene infatti che “la guerra della strategia informativa rispetto alla lotta al narcotraffico è una guerra persa e si perde ogni giorno di più, perché c’è una gigantesca confusione dove l’unica cosa che emerge sono i cadaveri. La guerra perdida è la strategia del governo che non ha saputo informare. Non ha spiegato con chiarezza e la gente non comprende ciò che accade.” La guerra in atto sta ridefinendo non solo i rapporti tra stato e criminalità organizzata, ma la stessa geografia politica di un paese, che alla fine degli anni ’60, Tommaso Buscetta, esule a Città del Messico, aveva definito come “un paese non adatto per gli affari”.
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