1. Partiamo da una tua valutazione rispetto a quanto sta succedendo in Europa: si discute molto di populismi, neo-nazionalismi e sovranismi, riscoperta dell’onnipresente logica dell’amico-nemico, legittimazione di diverse forme di discriminazione per categorie solo recentemente tutelate, quali omosessualità, differenza culturale, differenze di genere. Come studioso del razzismo, qual è la tua modalità per fare un po’ di ordine in questo dibattito, anche a partire dalle differenti sfumature che l’avanzata di questo tipo di discorsi, per così dire contro-riformisti, hanno preso nei vari Paesi europei, quindi con differenze spaziali e temporali?

Per indagare seriamente le conseguenze che queste logiche determinano nel contesto europeo, bisogna prendere atto che l’Europa si trova in una posizione intermedia tra una dimensione globalizzata, mondiale, sempre più interconnessa e una dimensione nazionale e locale. Pertanto valutare la situazione europea, anche in modo molto generale, implica avere una buona conoscenza, innanzitutto storica, di quanto succede a questi due livelli. Si tratta di un’analisi complessa, che non può essere improvvisata o focalizzata solo sul livello nazionale e locale o, viceversa, genericamente riferita agli effetti della globalizzazione. A questo va aggiunto che molte categorie di analisi che noi utilizziamo per rendere intellegibile la situazione sono di origine americana, e non europea. Questo è particolarmente vero quando si parla di razzismo, neo-razzismo e, più in generale, di discriminazione. A livello di linguaggio, ma anche a livello accademico, queste categorie provengono, o sono fortemente influenzate, dal dibattito che si è creato in un Paese post-coloniale e post-schiavista come gli Stati Uniti, dove la questione della «razza» e del colore è stata ed è centrale; dove il passaggio dal razzismo biologico a quello culturale, differenzialista e istituzionale ha caratterizzato solo la storia recente, lasciando profonde tracce nella società che tuttora animano la vita politica americana con modalità, anche temporali, assai diverse da quanto accade in Europa.

Portare queste categorie nel discorso accademico e politico per spiegare l’attuale situazione europea implica forme importanti di adattamento e richiede, da parte del discorso scientifico, una particolare attenzione: bisogna evitare di importare, magari inconsapevolmente, discorsi di senso comune. Per semplificare, concentriamoci sul caso del razzismo. Se dico «razza» in francese metto in campo una nozione che molte persone effettivamente utilizzano nel linguaggio quotidiano ma che un sociologo francese non può invece utilizzare, salvo premunirsi dicendo che si tratta di una costruzione sociale; sappiamo invece che negli Stati Uniti su questo c’è una tradizione linguistica e intellettuale differente. In Europa l’origine del discorso razzista è diversa, non nasce da una società schiavista ma da un’operazione per così dire intellettuale, storicamente contrapposta a quella universalista e illuminista dei diritti umani. Il razzismo nasce come costruzione politica e sociale non sulla base di pratiche quotidiane, almeno non sul suolo europeo. In questo caso si può parlare di una specificità continentale europea, dove la Francia ha avuto un ruolo centrale nel dar vita tanto al discorso universalista quanto alle ideologie razziste della modernità – come sappiamo molti ideologi del razzismo erano francesi. Zeev Sternhell considera il mio Paese come la vera culla di tutte le ideologie naziste, fasciste e razziste del Novecento. La Francia ha avuto in effetti un ruolo particolare anche rispetto all’antisemitismo che in quanto sociologo  – ma uno storico non sarebbe d’accordo – ritengo possa essere analizzato con gli stessi strumenti analitici che usiamo per rendere conto del razzismo. Anche la questione dell’antisemitismo potrebbe essere un buon esempio per mostrare le differenze all’interno dell’area europea e le specificità europee rispetto ad altre aree geografiche, in particolare rispetto alle relazioni politiche con lo Stato di Israele. Per esempio in Francia una persona che dice di detestare lo Stato di Israele viene considerata immediatamente sospetta di antisemitismo, mentre in Polonia o in Ungheria c’è una certa opinione pubblica che, pur sostenendo l’esistenza di questo Stato, con cui si possono tranquillamente fare affari, manifesta orientamenti chiaramente antisemiti.

 

[L'intervista completa, curata da Paola Rebughini e pubblicata sul "Mulino" n. 6/19, pp. 1011-1016, è acquistabile qui