Trasformare un’istituzione complessa e articolata in diversi livelli come è la Chiesa cattolica non è impresa facile. Di sicuro non basta lo slancio profetico dell’uomo solo al comando, che ben sa che per portare a compimento tale impresa si deve tirare dietro tutto un popolo e farlo sentire come a casa sua in una nuova configurazione della comunità ecclesiale. Una riforma costituzionale della Chiesa, quella a cui aspira Francesco, può riuscire solo sulla base di un cambio di mentalità da parte dei credenti (di cui fanno parte tutti, dai cardinali di curia alla vecchietta che ogni giorno va in chiesa per dire il suo rosario). Se altre istituzioni possono immaginarsi di rinnovarsi solo attraverso procedure giuridiche, la Chiesa cattolica sa bene di non poterselo permettere.
In questo Francesco rappresenta una consapevolezza inedita per la Chiesa stessa. Ed è probabile che ciò rappresenti lo snodo cruciale dell’opposizione, non irrilevante nei numeri e sicuramente ben attrezzata nei mezzi, che si muove contro di lui nei mille rivoli del cattolicesimo occidentale. Perché il baricentro di questa forza che si contrappone al suo immaginario di una Chiesa a-venire è prevalentemente raccolto e distribuito fra Europa e Stati Uniti. Grandi forze del cattolicesimo moderno che fu, ma già adesso marginali rispetto alla geografia del cattolicesimo globale.
Inoltre, una compiuta riforma della Chiesa cattolica non avviene, non è mai avvenuta, nell’arco di una sola generazione. I processi che essa richiede sono come quelli dell’Esodo, saranno altri ad entrare nella configurazione ecclesiale auspicata. La fede, anche quella istituzionale, deve imparare la pazienza del contadino, di chi semina e apprende a stare nell’attesa di un tempo che sfugge alla sua possibilità di controllo e manipolazione. È per riferimento a quest’arco esteso delle generazioni credenti che Francesco deve mettere mano, nel tempo che resta, ad alcune scelte istituzionali strategiche. Scelte che permettano alla virtuosità di un traghettamento della Chiesa cattolica in una nuova epoca di continuare a sussistere dopo di lui. Questo ce lo possiamo attendere, è qualcosa che Francesco deve a tutta la comunità ecclesiale come comunità di generazioni (anche quelle che non ci sono più e quelle che non sono ancora). Pretendere di più sarebbe stolto, vorrebbe dire non conoscere né le procedure né la dimensione spirituale di questo strano corpo che è la Chiesa cattolica.
Corpo che Francesco sta cercando di educare a un’estroversione da lungo tempo dimenticata. Facendo perno sulle sue intuizioni, non sempre facili da gestire, Francesco ha comunque restituito dignità e rilievo alla diplomazia vaticana nell’ambito delle innumerevoli situazioni di criticità del nostro tempo. Cercando così di risolvere l’anacronismo di un’istituzione che nasce continuamente dal Vangelo ed è, al tempo stesso, uno stato nella comunità delle nazioni. In questo si lascia guidare da un doppio principio: una concentrazione sui margini del mondo, delle condizioni di vita, delle situazioni umane (anche dentro la Chiesa), da un lato, e un’attenzione notevole al vasto continente asiatico nel suo complesso, dall’altro – al centro della quale va a iscriversi anche la strategia di un dialogo con la Cina.
In un mondo che sembra essere sfuggito di mano alle istituzioni preposte al suo governo, con una sorta di liberi tutti che produce non solo nuovi processi di identità etnica e nazionalista, ma mette a repentaglio l’ambiente stesso del vivere umano, Francesco appare essere l’unica figura disponibile ad assumersi la responsabilità di indicare la direzione verso cui orientare la barra del timone del nostro vivere-insieme a livello globale. Poi si può essere più o meno d’accordo con lui, di sicuro ci sta provando.
Lo fa non attraverso gesti simbolici, ma andando di persona sui luoghi dell’umano vivere – segnato dalle ferite del nostro tempo e dalla nostra cura narcisistica e miope che non ci permette di alzare lo sguardo oltre noi stessi. Lampedusa, a Cuba insieme al Patriarca di Mosca Cirillo, Repubblica Centroafricana con l’apertura anticipata dell’Anno giubilare della misericordia a Bangui, Myanmar, il progetto di viaggio con il primate della Chiesa anglicana Welby nel Sud Sudan… sono solo alcune delle tappe di questo recarsi nella realtà del mondo, tra i dimenticati della storia. Semplicemente per essere davvero lì in mezzo a tutti noi.
Con il desiderio di non dimenticare nessuno, neanche quelli che tra i suoi gli oppongono la più strenua resistenza. In un gesto di intercessione davanti a Dio che raccoglie tutti, nessuno escluso. Non è il gesto devozionale di un’anima bella e un po’ ingenua, ma quello di un «capo» che si fa carico dell’intera umanità nella stagione di uno spaesamento globale che nessun altro sembra essere disposto a cercare di governare.
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