La profonda crisi della Chiesa cattolica, legata alla questione degli abusi sessuali riesplosa con la pubblicazione del rapporto investigativo del gran giurì della Pennsylvania e con gli interventi dell’ex nunzio vaticano a Washington, monsignor Viganò, Vatè materia quotidiana di cui si nutre l’informazione mediatica. Su questo, oggi, siamo però lontanissimi dalla qualità del lavoro svolto dal Boston Globe nel 2002, che rappresentò una sorta di avvocatura pubblica in nome delle vittime di abusi sessuali nella Chiesa cattolica.
Facendo cinicamente sponda sulle notizie circolate tra mezza estate e inizio autunno, un ceto conservatore statunitense, che si può ritrovare condensato nella figura di Steve Bannon, si è aggressivamente messo all’opera per limitare il più possibile la sfera di azione di papa Francesco. Facendo retoricamente perno sul tema dell’ortodossia della forma cattolica, la cui dissoluzione viene imputata alla visione ecclesiale dell’attuale papa, si mira in realtà a confinare la Chiesa in se stessa; negando la legittimità di ogni sua parola in materia di giustizia sociale, regolazione dell’economia globale, questioni legate alla tutela dell’ambiente, e così via.
In una battuta, l’autorità del papa (e l’autorevolezza della Chiesa) è massima rispetto al «dogma», da un lato, e nulla in ambito di dottrina sociale, dall’altro. In maniera coerente a una simile visione, l’attività diplomatica della Santa Sede viene guardata non solo con sospetto, ma è ritenuta anche essere del tutto indebita. Non sorprende, quindi, che quel medesimo ceto conservatore si sia fatto fautore di una critica feroce dell’accordo provvisorio stipulato fra la Santa Sede e la Repubblica popolare cinese il 22 settembre scorso.
Nelle relazioni diplomatiche, talvolta, il semplice fatto di giungere a un accordo, per quanto provvisorio e parziale esso sia, può rappresentare un passo fondamentale che assume un rilievo storico non solo per i soggetti che lo stipulano. Così è dell’accordo fra il Vaticano e la Cina, anche se esso non si può definire buono e pienamente soddisfacente. La sua provvisorietà, mentre chiude un lungo cammino di avvicinamento e reciproca comprensione, apre verso l’incertezza delle forme concrete della sua applicazione.
Questa dinamica significa, per la Chiesa cattolica, poter chiudere su un aspetto centrale per quanto riguarda la sua auto-comprensione: ossia il fatto di poter finalmente unificare la questione dei vescovi. L’accordo permette, infatti, di identificare in forma unitaria chi siano i vescovi della Chiesa cattolica in Cina. In tal modo, si esce da una condizione che poteva portare a una definizione di scisma di fatto. Rimangono invece questioni aperte: da un lato, il modo in cui funzionano effettivamente le comunità cattoliche cinesi e, dall’altro, come interpretare le figure ambivalenti all’interno di esse.
Per quanto riguarda la Cina, con la firma dell’accordo provvisorio essa accetta un controllo esterno a se stessa in un momento storico-politico in cui non si trova in necessità di mettere mano ad aperture di questo genere. In tal modo, l’apparato del Partito comunista cinese riconosce una «divisione della sfera di interessi in Cina fra politica e religione» (F. Sisci). La Repubblica popolare cinese, dunque, attraverso questo accordo con la Santa Sede limita di fatto la propria sovranità davanti a una forza «inesistente», quella della Chiesa cattolica appunto.
L’esercizio di un potere gentile su scala globale intorno a questioni centrali per il futuro della comunità umana, incarnato da papa Francesco, non è passato inosservato da parte delle autorità cinesi – reputandolo di tale rilievo da accettarlo come limite della propria sovranità interna. Si tratta di quel medesimo potere che preoccupa profondamente Bannon e i suoi soci, i quali stanno facendo tutto il possibile per farlo dissolvere il più presto possibile.
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