Ci succede sempre così, quando se ne va una persona che per noi ha contato tanto. Quando non c’è più ci sembra impossibile non potere più godere della sua intelligenza, dei suoi consigli, delle sue battute. Nel caso di Edmondo Berselli, scomparso ieri a Modena, questa sensazione di irrealtà prende quasi il sopravvento sul dolore. Chi come noi ha potuto stargli vicino per imparare un mestiere, fatica a parlarne, immaginandolo sornione a farsi beffe di chi oggi sta scrivendo di lui. Eppure la sua vita si è così sovrapposta a quella del Mulino, e della rivista in particolare, da rendere il suo ricordo un esercizio indispensabile.
Di questa rivista fu redattore capo sin dal 1986, affiancando, anche fisicamente in queste stesse stanze, Nicola Matteucci che ne era il direttore. Un ruolo che Edmondo ricoprì con sempre maggiori responsabilità, sino a quando del «Mulino» divenne vicedirettore prima, con Alessandro Cavalli, e direttore poi, per due mandati, dal 2003 al 2008. Un periodo così lungo, e così intenso, non può che far comprendere subito quanto Edmondo sia stato il Mulino, con il suo via vai quotidiano da Modena a Bologna, nei suoi rapporti con le persone: gli autori, i soci dell’Associazione, i collaboratori. Si imparava molto di più da un caffè con lui, e dalle chiacchiere che ne seguivano, che da molte dotte disquisizioni politologiche. Chi poi poteva godere della sua compagnia a pranzo rischiava di uscirne frastornato, tante erano le sollecitazioni.
Questa rivista, così come si presenta oggi ai lettori, deve moltissimo alla profonda ristrutturazione di formato editoriale che la segnò, complice la direzione di Giovanni Evangelisti, all’inizio degli anni Novanta. Professionista puro e senza inutili orpelli d’accademia, mai superficiale, attentissimo a tutto, capace di grandi intuizioni. Ma anche figlio del popolo, come amava ricordare ai pochi che riuscivano a guadagnare la sua confidenza, conosceva il valore del lavoro e ne aveva una visione alta e realmente meritocratica. Dopo lunghi anni di collaborazioni ai giornali (dalla «Gazzetta di Modena» al «Resto del Carlino», dalla «Stampa» al «Messaggero» e al «Sole-24 Ore») alla fine del ’99 decise di fare il grande passo accogliendo l’offerta di Giulio Anselmi che lo volle con sé all’«Espresso». Poco dopo approdò come editorialista di punta, sempre in prima, alla «Repubblica» di Ezio Mauro, con il quale seppe instaurare un rapporto di grande equilibrio, di cui in tutti questi anni hanno beneficiato i tanti lettori dei suoi editoriali. Ma ci furono anche la radio (difficile dimenticare la sua striscia settimanale pseudo-sportiva sul terzo programma); la televisione, dove lavorò soprattutto come autore; il teatro (sorprendente per chi non ne conosceva le passioni «leggere» la sua collaborazione con Shel Shapiro, che portò a Sarà una bella società). Ma soprattutto i suoi libri, da quelli usciti al Mulino a quelli frutto della collaborazione con Mondadori, Post-italiani. Cronache di un paese provvisorio (2003), ma anche Venerati maestri (2004), per citarne solo un paio, mettono in chiaro la straordinaria capacità di raccontare in scioltezza e al tempo stesso in profondità i fatti e le loro premesse, ma anche e soprattutto le tendenze di lungo periodo. Da questo punto di vista, Post-italiani, così come i tanti articoli scritti per «il Mulino» e molti dei pezzi scritti per «Repubblica» ed «Espresso», alcuni davvero geniali, restano fondamentali per capire l’Italia di oggi. Un paese provvisorio, appunto, incapace di trovare la spinta per la ripresa, culturale ancor prima che economica, nelle ragioni stesse della propria impasse. Un paese cui le analisi di un vero intellettuale, spietato e senza fronzoli, sempre schietto e comprensibilissimo, mancheranno molto.
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