Siamo a pochi giorni dall’ultimo sisma italiano, ma la vasta gamma delle ipocrisie nostrane – anzitutto politiche, s’intende – si è già consumata tutta. Nell’era di internet, però, l’infernale trama della banalità a quanto pare necessita di due tempi: dopo aver bevuto litri di paludate «reazioni ufficiali», la parola è passata alla controrelazione del popolo connesso. Il secondo tempo del prevedibile, ovvero il duro compito dialettico di apporre un gigantesco meno davanti a tutto il già sentito istituzionale, questa volta è stato assolto dal presidente del «Popolo Partite iva» Lino Ricchiuti, che dalle colonne di L’ecodelsud.it ha commentato la sua stessa «dichiarazione controcorrente»: «Scusate ma io per il terremoto non do neanche un euro».
Non do una lira, perché pago già le tasse. E sono tante. E in queste tasse ci sono già dentro i soldi per la ricostruzione, per gli aiuti, per la protezione civile. Che vengono sempre spesi per fare altro. E quindi ogni volta la Protezione Civile chiede soldi agli italiani. E io dico no. Si rivolgano invece ai tanti eccellenti e grandi evasori che attraversano l’economia del nostro Paese o ai politici di lungo corso che non hanno mai lavorato in vita loro e hanno yacht arenati in porti turistici o mega ville. E nelle mie tasse c’è previsto anche il pagamento di tribunali che dovrebbero accertare chi specula sulla sicurezza degli edifici, e dovrebbero farlo prima che succedano le catastrofi. Con le mie tasse pago anche una classe politica, tutta, ad ogni livello, che non riesce a fare nulla, ma proprio nulla, che non sia passerella. Il tempo del dolore non può essere scandito dal silenzio, ma tutto deve essere masticato, riprodotto, ad uso e consumo degli spettatori.
«Le dame, i cavalier, l’arme, gli amori». Ad Ariosto era bastato un endecasillabo per dipingere la sua parodia del mondo medievale; quasi mezzo millennio dopo Lino Ricchiuti affida a un altro elenco la sua caricatura del contemporaneo: «i politici, le tasse, gli yacht e gli evasori». Sono questi i bersagli del capopopolo scandalizzato, gli strali da bar che migliaia di «condivisori» dispiaciuti per il terremoto ma assetati di qualcosa d’altro si sono affrettati a propagare su internet plaudendo al coraggio e alla libertà intellettuale. Provo a rispondere a coloro che hanno salutato con gioia questo articolo – «oh, finalmente qualcuno che parla chiaro» – sentendosi visceralmente vicini a quel tipo di contenuti.
i) Poniamo che salendo sull’autobus un’anziana signora si inciampi e cada di fronte al signor Ricchiuti. Per come si è descritto nel suo articolo, è presumibile ch’egli reputi scandaloso il fatto che nel nostro Paese i marciapiedi e i predellini non s’incontrino alla stessa altezza. Ma davvero, forte delle sue opinioni, Ricchiuti lascerebbe a terra una bisognosa, attendendo in qualità d’onesto contribuente un’ordinanza comunale che, in una prospettiva pluriennale, renderà meno probabili incidenti simili? Mi riesce difficile crederlo. E allora cosa, nella mano che alla fine egli tenderebbe alla vegliarda, farebbe del signor Lino un buonista stupido, colluso a sua insaputa con la cattiva amministrazione comunale che governa la sua città e che degli anziani si occupa solo sotto elezioni? Fortunatamente, le nostre opinioni in merito alle mancanze degli altri (tra cui la classe politica che ci governa) non ci esimono né dai nostri doveri (pagare le tasse) né dal nostro personalissimo sentimento del giusto (fare o meno un gesto con intenzione caritatevole): la confusione di questi due piani – «In beneficienza non do una lira, perché pago già le tasse» – è insensata quanto l’incuria edilizia di un Paese notoriamente sismico. E qui veniamo al punto 2: all’Italia, al nostro modo di essere e, ahinoi, parlare.
ii) Il ragionamento del «presidente-cittadino» Ricchiuti è un autentico capolavoro, perché spingendo in secondo piano la tragedia che lo innesca sintetizza in poche righe la quint’essenza della mentalità media italiana, potenzialmente applicabile a qualsiasi contesto. C’è tutto: il disprezzo incondizionato per la classe politica al governo; la malcelata e granitica certezza di dare alla collettività più di quanto da questa non si riceva; la presunzione di scaltrezza di fronte alla messinscena del potere cui tutti colpevolmente credono; l’affermazione, implicita ma inconfutabile, della propria rettitudine, a fronte di un «resto del mondo» che a seguito di tragedie evitabili si trincera dietro a gesti fintamente buoni. Poco importa che in ognuno di questi elementi ci siano percentuali di verità. Purtroppo, nell’atto di ribellarsi allo stucchevole pianto della maggioranza, Lino Ricchiuti e i suoi istintivi «condivisori» ne rappresentano un’altra ancora più terribile (e attuale): un’umanità di qualunquisti giusti e puliti, che a sostegno morale della propria (legittima) mancanza di empatia porta gli esami di ipocrisia fatto ai sentimenti degli altri. Persone che rispondono ai dubbi della propria coscienza sventolando con livore la dichiarazione dei redditi, nella certezza totalitaria di appartenere al sempre più ristretto club degli intelligenti onesti e sinceri.
Sia chiaro, di fronte alle macerie di Amatrice siamo tutti, per forza, maggioranza al sicuro: «chini e distanti sugli elementi del disastro», avrebbe cantato De André. Chi, dal belvedere della sua torre, sceglie per qualsiasi motivo (che nessuno dovrebbe permettersi di sindacare) di gettare due euro, certo non risolve i problemi delle popolazioni terremotate, né è per questo una persona migliore di chi invece sceglie di non farlo. Ma tutto questo si sapeva da ben prima che l’italianissimo balsamo del signor Ricchiuti circolasse in rete per tutelare chi terremotato non è da quel fastidioso prurito interno che collega gli esseri umani.
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