Nel 2018, quando la Cdu doveva eleggere il suo nuovo presidente, la preferenza di Wolfgang Schäuble andò a Friedrich Merz e non alla candidata di Angela Merkel, Annegret Kramp-Karrenbauer. In un’intervista alla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» Schäuble motivò la sua decisione: «A mio avviso la Cdu deve presentarsi in modo più risoluto. Insieme alla Csu, dobbiamo integrarci molto più radicalmente dal centro sino ai margini del Paese e rafforzare il nostro profilo di partito popolare». Dalla Mitte sino alle ali più radicali o più ai margini, esposte al messaggio radicalizzante di Alternative für Deutschland.
Schäuble era consapevole di quanto il Paese fosse diviso: non solo per la vicenda dei profughi del 2015 e dei suoi effetti sulla politica interna ma perché il dopo Merkel appariva (appare) come la fase in cui gli interessi tedeschi non saranno più sempre compatibili con quelli di altri partner europei. Quantomeno questa compatibilità non sarà più automatica e priva di conflitti. Se Angela Merkel è stata la cancelleria della costante trattativa, il futuro dovrà essere segnato dalla necessità di definire più chiaramente gli obiettivi e le priorità di Berlino, per evitare che lo facciano solo le forze populiste.
Se nessun politico tedesco metterebbe in discussione la scelta europea, con l’eccezione di AfD (che ha di recente reintrodotto l’uscita dall’euro nel suo programma), è noto che l’integrazione non è così semplice da proseguire. Gran parte della popolazione vuole che gli interessi tedeschi siano presi nella giusta considerazione. In fondo, né più né meno quello che ogni cittadino chiede al proprio governo.
Schäuble aveva capito quale rischio il Paese potesse correre: la "questione nazionale", la rappresentanza degli interessi tedeschi, venisse fatta propria esclusivamente dalle parti più estreme della politica. Da AfD: in questo modo il populismo diventa nazionalismo
Schäuble aveva capito quale rischio il Paese potesse correre: la «questione nazionale», la rappresentanza degli interessi tedeschi, venisse fatta propria esclusivamente dalle parti più estreme della politica. Da AfD: in questo modo il populismo diventa nazionalismo. Del resto per anni Franz Josef Strauß aveva rappresentato le tendenze più reazionarie e scioviniste della politica tedesca, ad esempio le rivendicazioni dei territori a Est dei fiumi Oder e Neiße. Strauß aveva ascoltato quelle istanze, le aveva «civilizzate» e «costituzionalizzate», evitando che si autorappresentassero pericolosamente come forze antisistema.
La differenza tra allora e oggi sta proprio nel fatto che questa forza a destra dei conservatori si è già affermata e, per quanto la sua spinta sia esaurita e abbia scelto fortunatamente di mettersi in fuorigioco da sola, dando credito a complottisti di ogni sorta per andare dietro alle poche migliaia di Querdenker, ostaggio della destra più violenta, è ormai una forza presente al Bundestag e la politica tedesca deve farci i conti. Del resto Kramp-Karrenbauer si è dimessa lo scorso anno per non aver saputo evitare il disastro in Turingia (l’elezione di un presidente con i voti di Afd) mentre la ventilata candidatura, sostenuta da alcuni conservatori, alle elezioni di Hans-Georg Maaßen, ex capo del Verfassungsschutz, l’agenzia per la difesa della Costituzione, e figura molto controversa, preoccupa la dirigenza della Cdu. Merz, a giudizio di Schäuble, avrebbe garantito meglio questa evoluzione del partito: una forza più «radicale» ma non per questo nostalgica del passato o, peggio, antieuropeista. Un partito dal chiaro profilo conservatore, nel quale diverse forze e anime avrebbero potuto trovare rappresentanza, dal centro sino alle parti più radicali, in economia come nelle questioni migratorie. Oggi occorre dire che, se l’analisi di Schäuble era corretta, Merz non si è rivelato una figura adeguata alla sfida.
A mio avviso, anche l’esito dell’ultimo congresso della Cdu non offre una risposta convincente a questo problema. Armin Laschet è stato eletto alla guida del partito promettendo continuità con gli ultimi sedici anni. Ma lui non è Angela Merkel, che ha dimostrato di avere capacità straordinarie nelle trattative e nella definizione dei compromessi. Capacità che difficilmente si trasmettono o s’imparano. In secondo luogo, la fase è molto diversa. Perché indipendentemente da chi andrà alla Cancelleria federale, il rischio è la marginalizzazione di una parte del Paese – tra cui fasce sociali una volta base dell’elettorato delle forze progressiste – che potrebbe anche radicalizzarsi. Per queste persone l’Europa non è una scelta da mettere in discussione e, anzi, occorre rafforzarla: su questo è evidente il ruolo che ha avuto il Bundesverfassungsgericht, il Tribunale costituzionale federale, nel tranquillizzare la popolazione e rassicurarla sulla necessità e sulle opportunità dell’europeismo. Ma l’Europa non è nemmeno una realtà politica già data, che oggi può sostituire lo Stato nazionale: ed è una considerazione certamente fondata, negarlo è da ingenui.
La Germania dovrà fare i conti con coalizioni sempre più eterogenee. Ci sarà bisogno di molta "fantasia" ma i governi rischieranno di essere meno saldi. Creando ulteriore incertezza in una popolazione che ha sempre fatto della stabilità politica una delle ragioni di fiducia verso la democrazia
Inoltre, la Germania dovrà fare i conti con coalizioni sempre più eterogenee: secondo i sondaggi, la Spd potrebbe governare solo con altri due partiti e anche per i conservatori l’ipotesi di un’alleanza a tre con Liberali e Verdi potrebbe essere più allettante del solo governo con gli ecologisti. Ci sarà bisogno, quindi di molta «fantasia» ma, inevitabilmente, i governi rischieranno di essere meno saldi. Creando ulteriore incertezza in una popolazione che ha sempre fatto della stabilità politica una delle ragioni di fiducia verso la rappresentanza democratica.
Questo ci dice tanto anche sulle concrete possibilità del prossimo governo federale: non è immaginabile, almeno nel breve periodo, una svolta radicale sulle politiche internazionali e europee. Persino in caso di un governo «verde». A oggi anche la scelta di Olaf Scholz di fare suo lo slogan dell’unione fiscale europea – opzione sino a oggi ben poco condivisa con altri partner europei e priva di una vera strategia della socialdemocrazia continentale – potrebbe essere un grosso rischio per la Spd. Che finirebbe per essere apprezzata più all’estero che in patria e obbligata a una difficilissima trattativa in Europa proprio quando l’incertezza sul futuro è considerevole: le elezioni francesi del 2022 e quelle italiane dell’anno successivo non sono scadenze da sottovalutare e aperte ad ogni opzione.
Più che attendere chi si accomoderà sulla poltrona di Angela Merkel, l’Italia dovrebbe cercare di avere un proprio ruolo in Europa – che manca ormai perlomeno dagli anni Novanta, con poche eccezioni – a partire proprio da una più stretta sinergia con Berlino, anche in ragione della crisi dell’asse tra Francia e Germania. Purtroppo, nell’immaginario del nostro Paese la Germania degli ultimi sedici anni è stata non solo nazionalista ma ha rappresentato l’ordine e la fedeltà cieca al modello neoliberista. Quale bersaglio polemico delle sinistre italiane, la Germania ha preso il posto una volta occupato dagli Stati Uniti. La classe politica tedesca sarebbe interessata allo status quo perché compatibile con i suoi interessi nazionali: da qui le proposte di inverosimili e velleitari «blocchi» contro Berlino con Paesi mediterranei, latini o governati da socialisti.
Il nostro Paese deve, invece, mettere da parte lo scetticismo e l’aperta ostilità verso Berlino e cominciare a fidarsi, cercando una relazione profonda e interrogandosi sulle comuni sinergie. Non è oggi il caso di puntare su grandi riforme da attivare sul piano continentale che presentano oggettive difficoltà di realizzazione in un’Europa a 27. Ad esempio, interventi radicali sui Trattati rischiano di essere bocciati, come già avvenne nel 2005, non tanto dai governi ma proprio dai cittadini e delle cittadine (non d’Europa ma ancora degli Stati). Next Generation EU dimostra proprio che, con le istituzioni attuali, interventi positivi sono possibili, pur al prezzo di dure trattative. La necessità di ulteriori riforme parte dal presupposto di dover «interrompere», appunto, la fase neoliberista, come spesso si legge in più di un intervento. In realtà la questione, più che sulla teoria economica, è istituzionale e geopolitica.
Quella che si sta aprendo, nella fase successiva alla pandemia, è proprio la necessità di una maggiore integrazione tra gli Stati per essere sempre più autonomi dall’estero per i beni e i servizi strategici. Qui si misura il vero capovolgimento rispetto al mantra ripetuto fino agli anni Novanta: ci sono beni che dobbiamo produrre necessariamente qui. Ci sono infrastrutture da realizzare, mobilitando capitali privati e pubblici. Esattamente quello che è stato fatto a Marburgo con la seconda linea per la produzione del vaccino. Tutto questo richiederà la cornice istituzionale dell’Unione ma, necessariamente, anche la sinergia tra un piccolo gruppo di paesi. Il famoso nucleo dell’Europa: l’Italia dovrebbe avere un ruolo. Se avremo la fantasia per immaginarlo, è altro discorso.
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