La corruzione viene percepita come endemica e, nei suoi snodi più importanti, tocca inevitabilmente la politica. A questa si aggiunge una significativa malversazione della funzione pubblica, vanificata da ondate di assenteismo e dalla sostanziale deresponsabilizzazione della dirigenza. In attesa di conoscere le soluzioni che la riforma Madia intenderà dare a questi annosi problemi, si potrebbe tentare di mettere ordine in alcune questioni che, solo apparentemente, possono dirsi distinte. In primo luogo pare chiaro che la progressiva destrutturazione dei partiti politici tradizionali ha importanti ricadute sulle azioni di contenimento della corruzione che, ovviamente, non sono solo giudiziarie, anche se il crinale dei processi è quello su cui rotola quasi sempre la pietra degli scandali.
L’annichilimento delle strutture organizzative, la debolezza degli apparati centrali spesso in balia di potentati locali, l’assottigliarsi delle risorse pubbliche e private è sotto gli occhi di tutti. Malgrado qualche flebile segnale in senso contrario (ad esempio i risultati del Pd nella raccolta del contributo del 2/1000), non v’è gruppo che non manifesti un depotenziamento della propria capacità di tenere insieme le articolazioni centrali e locali.
A prescindere da ogni altra considerazione, sotto il profilo investigativo questa situazione segna un profondo scarto rispetto alla Tangentopoli dei primi anni Novanta. La repressione penale era, allora, chiaramente avvantaggiata dalla funzione dei famosi “tesorieri” di partito che operavano da veri e propri collettori in ambito nazionale della raccolta dei finanziamenti illeciti e di parte della corruzione. Individuato, per ciascun partito, quel terminale finanziario l’azione investigativa si canalizzava alla ricerca dei “contribuenti” occulti. Un lavoro non facile, ma non impossibile.
La modifica strutturale dell’organizzazione politica, la sua pulviscolare frammentazione territoriale, l’atomistica (talvolta) posizione di singoli ras nella gestione del malaffare obbliga gli inquirenti ad una sorte di guerra casa per casa. Occorre, cioè, individuare i singoli centri o soggetti della corruzione e colpirli uno per uno. Un’azione difficile e che, infatti, stenta a decollare se è vero che gli standard internazionali ci vedono relegati sempre in fondo a tutte le classifiche.
Secondariamente si pone il problema di studiare strategie nuove. È dei giorni scorsi la polemica per il decalogo con cui il Movimento 5 Stelle ha inteso garantirsi una ferrea disciplina di partito, prevedendo multe salate per quanti si discosteranno dalle indicazioni del Movimento o abiureranno alla propria appartenenza. Non è il caso di invocare l’articolo 67 della Carta e il divieto di mandato imperativo. Vedremo se, alla prova delle aule di giustizia (si può dubitare che qualche «reo» paghi spontaneamente), questa clausola sarà ritenuta lecita, ma non è questo il profilo che ci interessa.
A suo modo il M5S pone un problema importante che il Pd ha prontamente colto proponendo una legge che dia attuazione all’articolo 49 della Costituzione, secondo cui «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».
Il punto è che una futura legge che regolamenti l’attività dei partiti e dei movimenti politici difficilmente potrebbe prescindere da una disciplina dei fatti di reato commessi dai rappresentanti e dagli eletti di queste organizzazioni. Il riferimento, com’è ovvio, corre al d. lgs. 231/2001 che regola la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche per i reati commessi dai propri dipendenti.
Se la società non si è dotata di un modello organizzativo e di controllo capace di interdire ai propri uomini la commissione di reati particolarmente gravi (tra cui la corruzione), l’ente risponde patrimonialmente del reato cagionato. La graduazione delle sanzioni è correlata, ovviamente, alla gravità del fatto e comprende anche l’interdizione temporanea dall’attività economica svolta.
Sono fin troppo intuitive le conseguenze che questo sistema, ampliamente collaudato per le società private, avrebbe ove fosse trasposto ai partiti politici. La condanna di un sindaco, di un presidente di regione, di un consigliere regionale e via seguitando nell’ampio pantheon degli incarichi di governo e sottogoverno comporterebbe immediatamente una responsabilità per la forza politica che ha omesso le opportune verifiche sul prescelto. Dalla riduzione dei rimborsi elettorali, alla contrazione del contributo del 2/1000 o dei finanziamenti privati, per arrivare – nei casi più gravi di coinvolgimento delle posizioni apicali – alla temporanea interdizione dalla competizione elettorale.
Si potrebbe obiettare che, così, si metterebbe la vita (economica) dei partiti in mano alle toghe. Ma la risposta è agevole: i casi De Magistris e De Luca hanno mostrato quanto delicato sia il congegno delle interdizioni messo in campo dalla legge Severino. I dubbi di costituzionalità potranno essere stati anche fugati, ma resta forte la percezione che qualcosa non funziona nella sospensione degli eletti in ragione di una condanna di primo grado e che la presunzione di innocenza ne soffre.
Inoltre potrebbe finalmente sopirsi l’annosa diatriba tra chi afferma che la condizione di indagato o di imputato debba stroncare ogni ambizione politica e quanti si richiamano alla necessità di attendere i tempi della giustizia. Scelgano i partiti di candidare anche gli indagati o gli imputati: ma chi sbaglia paga, anche quando sbaglia solo nelle scelte.
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