Nonostante tutte le accuse a proposito del trattamento delle sue dipendenti femminili, del presunto furto di talenti tecnici da altre aziende, della manipolazione dei prezzi a seconda della richiesta, quello della piattaforma Uber è un business enorme. Valutata dai mercati di capitali in 70 miliardi di dollari, con riserve di 14 miliardi per espandere il suo ruolo in Medioriente, Africa e Asia, guarda a futuri investimenti in servizi come le auto senza guidatore, il car sharing, i taxi «volanti» [sic!] e altro ancora.
Uber si è trovata coinvolta in controversie sui suoi modi di agire, e soprattutto sul trattamento dei suoi autisti, nei diversi angoli del mondo, dall’Australia al Sud Africa, dal Cile all’India. Ma è in Europa che l’azienda ha incontrato la più ferma e radicale opposizione, confermando così il nostro continente come quella zona del mondo dove i giganti americani delle nuove tecnologie trovano i loro critici più feroci, e i più agguerriti oppositori nelle economie locali.
L’atteggiamento congenito della piattaforma che consiste, semplicemente, nell’ignorare le leggi e i regolamenti in vigore nei diversi Paesi, per attirare autisti e clienti a tutti costi – un approccio che ha funzionato così bene in America – in Europa ha provocato una levata di scudi particolarmente rumorosa. Nell’ottobre 2016 un tribunale del lavoro londinese si è pronunciato a favore di due autisti Uber i quali, sostenuti da un grande sindacato, rivendicavano il diritto di essere considerati come dipendenti, non liberi professionisti, come sostenuto da Uber. Nel giugno dello stesso anno, in Francia un tribunale aveva dichiarato Uber colpevole di avere fondato un servizio di autonoleggio «illegale», e di portare avanti metodi commerciali ingannevoli. Dopo il divieto imposto a Uber dai tribunali tedeschi, il capo dell’organizzazione dei tassisti in quel Paese dichiarò che la sentenza andava «a beneficio di tutti coloro che si trovano soli nel difendersi contro gli interessi delle aziende multinazionali» («Financial Times», 9.6.16).
Nessuna società meglio di quella americana dimostra come una superpotenza del soft power può disporre di un’abilità speciale nel generare e mettere al mondo modelli di cambiamento e di innovazione, per caratterizzarli subito dopo come «modernità»: mostrando a tutti i modi possibili per andare avanti, per «migliorare». Tali modelli offrono quello che il sociologo Peter Wagner nel suo saggio intitolato semplicemente Modernità (trad. it. Einaudi, 2013), chiama «la potenza interpretativa e pratica della loro normatività e funzionalità»; in altre parole – quelle del suo collega Gerard Delanty – la loro «salienza normativa». Il modo in cui Uber spinge avanti la sua salienza normativa è proprio quello che i tassisti tradizionali temono di più.
Ogni concezione tradizionale di modernità, sovranità e identità nel mondo dei taxi è messa in crisi dalla sfida di Uber: modernità, dal momento che Uber ha dimostrato come le applicazioni digitali tramite smartphone – e i navigatori satellitari – possono rivoluzionare uno storico settore del trasporto pubblico; sovranità, perché la sua app funziona a livello globale, mentre le norme che fin qui hanno governato il servizio taxi sono state di esclusiva competenza dei governi nazionali e locali; identità, perché i tassisti sono sempre stati considerati un gruppo di lavoratori con conoscenze specialistiche delle loro singole città, in alcuni casi – si pensi ai «black cab» londinesi – persino con veicoli ad hoc.
La forza e la spietatezza di Uber sembrano eccezionali persino per gli standard di Silicon Valley. «È più facile chiedere perdono che non permesso»: pare sia questo uno degli articoli di base che circolano nell’azienda. Ma nella sua spinta per l’innovazione e l’ubiquità Uber assume con grande naturalezza il suo posto nella lunga vicenda di importazioni europee dall’America nel settore dei servizi, quasi tutte contestate radicalmente nelle rispettive epoche. La storia inizia con l’arrivo delle catene di magazzini low cost negli anni Venti del Novecento, per proseguire con i palazzi del cinema negli anni Trenta. Nei Cinquanta vengono i coffee bar e i primi supermercati, i malls nei Sessanta, McDonald’s nel 1971, Blockbusters a metà anni Ottanta. Starbucks nei primi Duemila. In molte nazioni le attività delle catene low cost, poi dei supermercati, sono state contestate duramente dalle lobbies dei piccoli commercianti, un atteggiamento ancora riscontrabile in un Paese come l’India. Per quanto riguarda McDonald’s, l’icona suprema del fast food ha trovato la sua strada bloccata da attivisti molto spesso, persino con la violenza, dalla Francia all’Islanda, dall’Italia alla Svizzera.
Il primo dirigente di Google in Europa, riferendosi alle numerosi cause civili in cui la sua azienda è coinvolta all’interno dell’Unione europea, ha accusato l’Unione di «proteggere il passato dal futuro». Se questo è davvero ciò che l’Unione fa, non fa altro che ciò che, semplicemente, molti dei suoi cittadini, tassisti in testa, vorrebbero facesse. Purtroppo per i taxisti, però, nel giugno del 2016 la Commissione si è dichiarata espressamente a favore della sharing economy, in qualsiasi forma, a condizione che criteri e regolamenti per questo tipo di attività siano uniformati in tutta Europa. Sembrerebbe una prova ulteriore che i tecnocrati di Bruxelles non abbiano una minima idea della spinta dilagante e di fondo del populismo, che consiste nella riaffermazione della supremazia nazionale in tutti i settori possibili. La lezione della storia dei rapporti euro-atlantici sul fronte della «modernità», comunque, è molto chiara. Prima o poi anche i tassisti dovranno trovare le risorse organizzative e la fantasia per creare una nuova formula di vita, tutta loro, tra le innovazioni proposta da Uber e altre piattaforme analoghe, e le tradizioni che hanno governato fin qui i rapporti nella loro fetta di mercato.
[Nota: Per una storia generale del confronto euro-americano sul terreno dell’innovazione politica, economica e culturale, si rimanda a D.W. Ellwood, Una sfida per la modernità. Europa e America nel lungo Novecento, Carocci, 2012]
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