«In un mondo dominato dall’economia della conoscenza, un Paese che non investe in ricerca, sviluppo e cultura non ha futuro». Questo grido di allarme lanciato dal fisico Giorgio Parisi sintetizza le motivazioni della petizione che ha già raggiunto quasi settantamila sottoscrizioni, Salviamo la Ricerca, e cresce ancora.
Da oltre mezzo secolo esiste una narrazione tutta italica che prende di mira il mondo accademico e quello della ricerca in generale, ne enfatizza le colpe, ne ignora i meriti, ne ridicolizza le competenze. I fatti desunti da dati statistici oggettivi forniscono invece un quadro diverso: i nostri ricercatori sono troppi? È vero il contrario: per ogni diecimila abitanti l’Italia ne ha venticinque (intesi come persone che fanno ricerca in enti pubblici o privati), circa la metà della media europea, con punte come la Gran Bretagna che ne ha settanta. Forse non sono produttivi? Tutt’altro. Il ricercatore Italiano è tra i più produttivi del mondo con 0,7 pubblicazioni in media all’anno, contro lo 0,5 di Canada e Gran Bretagna e lo 0,4 di Francia e Stati Uniti. Forse si tratta di pubblicazioni di scarso interesse? Neanche per sogno, quello italiano è il ricercatore più citato al mondo: sei citazioni all’anno; a ruota cinque per la Gran Bretagna, circa quattro per Stati Uniti, Germania e Francia. E i dati sulla competitività? Il nostro ricercatore è in grado di attrarre finanziamenti dall’Europa circa una volta e mezzo più grandi della media. Un dato, quest’ultimo, meno allegro di quanto si possa pensare. Il nostro Paese infatti partecipa al finanziamento della ricerca della Comunità europea in modo massiccio e purtroppo, nonostante la nostra eccellenza, perde nel bilancio di erogazioni e rientri oltre trecento milioni l’anno. E si stima che per il 2020 potrebbe arrivare a perderne più del doppio.
Che fare? Aumentare subito e di molto il numero di ricercatori dotandoli di finanziamenti nazionali che li mettano in condizioni di parità con quelli degli altri Paesi. Questo servirebbe anche ad arginare la cosiddetta «fuga dei cervelli», perché gravato dalla nostra incapacità di attirare risorse intellettuali dall’estero come fanno invece in modo efficiente Francia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti. In sostanza l’Italia deve urgentemente congedarsi dal suo modestissimo investimento in ricerca e sviluppo fermo all’uno percento del suo Pil, raggiungere la media europea del 2 percento e tendere all’obiettivo del tre percento come dagli impegni di Barcellona.
Come fare? Questo forse è il punto che fa emergere le vere colpe del mondo della ricerca e di quello accademico, assuefatto a una politica che nell’ultimo trentennio da indifferente prima e sospettosa poi si è progressivamente trasformata in ostile verso di esso. La colpa principale della comunità scientifica è quella di aver smarrito la propria identità e di essersi di conseguenza frammentata in fazioni inerti spesso composte da un solo individuo che, invece di difendere l’intera categoria, accettano di svenderla per qualche briciola di interesse personale. Si dice da anni che servirebbe un’agenzia nazionale della ricerca ma, invece di esigerla, gli scienziati nostrani hanno un debole per allinearsi a chi prende decisioni al posto loro. Il Paese e il suo sviluppo sono annegati da atteggiamenti anti scientifici, ma gli scienziati girano la testa dall’altra parte e si dimenticano che lo studioso ha anche il dovere di pungolare le coscienze che preferiscono ascoltare i pifferai, di aiutare il cittadino a prendere posizioni di testa invece che di pancia sui vaccini, sugli Ogm, sulle questioni ambientali, energetiche, sul proliferare del gioco d’azzardo ecc. In un Paese che ha smarrito il valore del concetto di competenza chi ne ha tace colpevolmente. Parafrasando Guccini viene proprio da dire che «chi fa il professore si vergogna».
All’assemblea organizzata per sostenere e coordinare la petizione anche Piero Angela ha sollecitato in modo esplicito il mondo della ricerca sulla necessità di farsi sentire dal pubblico e dalla politica senza indugiare oltre. L’istruzione di ogni ordine e grado, la formazione e la ricerca formano il capitale umano del paese, l’ingegno che è la nostra sola grande risorsa. Senza di essa il nostro bel tempo e gli altri tesori nazionali non basteranno, per quanto splendidi, a salvare il Paese.
La scienza non è solo l’avventura del conoscere che segue una vocazione individuale, essa è anche un mestiere nel senso più nobile, ampio e complesso del termine come spiegava Max Weber un secolo fa in una conferenza all’università di Monaco. Essa abbisogna di strutture, organizzazione e supporto. Semmai qualcuno si fosse illuso, cullato dalla crescita del dopoguerra, che la vocazione e il lavoro scientifico in senso stretto bastino a fare scienza, è bene che apra gli occhi. Serve fare divulgazione per sdemonizzare i laboratori, sdoganare la ricerca di base togliendole lo stigma pernicioso e ingiusto dell’inutilità, contrastare quelle credenze popolari che sono una minaccia per le persone e, in periodi come questo, serve farsi sentire anche dalla politica perché quella ha raffinato negli anni una procedura che riflette in pieno la sua cultura quanto la sua lungimiranza: tagliare dove ad essa non duole.
Chi fa scienza la faccia sul serio dunque e si faccia sentire da tutti. Questo appello è soprattutto rivolto a coloro che sono radicati in posizioni permanenti nella ricerca e che devono fare da maestri ai più giovani anche oltre la loro disciplina. Perché quei giovani che restano nel Paese stanno rischiando tutto quel loro lungo e incerto futuro e non solo la loro pensione.
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