Il Salone internazionale del Libro di Torino ha festeggiato con un bagno di folla la trentesima edizione (165.000 visitatori, 38.000 in più rispetto al 2016), riscattandosi dalla defezione dei grandi editori, in primis il gruppo Mondadori che include lo storico marchio torinese dello Struzzo einaudiano, per la prima volta senza uno stand al Lingotto. Nei mesi scorsi, infatti, l’Associazione editori italiani ha propiziato la nascita di una manifestazione alternativa, «Tempo di Libri», alla Fiera di Milano (Rho), con l’ambizione – forse – di sancire il primato meneghino nel settore. Il debutto di fine aprile non ha tuttavia suscitato un’accoglienza all’altezza delle aspettative: 60.000 presenze in Fiera, 12.000 a Milano per le iniziative collegate.
Negli stessi giorni di maggio, il Festival del cinema di Cannes ha deluso i più, tant’è che la rivista statunitense «Variety», a luci ancora accese, ne ha tracciato un bilancio impietoso: «Il 70o Festival di Cannes sta per concludersi nello stesso modo in cui era partito: lentamente. Gli acquirenti hanno comprato pacchetti scadenti e costosi. Molti dei titoli in competizione, da The Square a Wonderstruck, hanno ricevuto recensioni controverse». The Square dello svedese Ruben Östlund si è poi aggiudicato la Palma d’oro della giuria presieduta da Pedro Almodóvar, polemico fin dalla vigilia verso due titoli della competizione prodotti da Netflix, il colosso californiano del cinema in streaming. Secondo il regista spagnolo, i film targati Netflix erano in gara illegittimamente, perché non destinati in prima battuta alla visione nelle sale. Un «purismo» un po’ retrò, indifferente alla fruizione online del pubblico più giovane, sùbito fatto proprio dal Festival di Cannes che dall’anno prossimo si regolerà di conseguenza (riflesso pavloviano dell’exception culturelle?).
Torino e Cannes, insomma, come lame di una forbice che, vieppiù con l’approssimarsi dell’estate, ritaglia «eventi» a ogni piè sospinto in centri grandi e piccoli. Che cosa è lecito aspettarsi da un festival degno di dirsi tale? Davvero funziona, come sostengono alcuni, soltanto se ha un retroterra metropolitano? Certo, un milieu studentesco e universitario «aiuta» e per alcune rassegne è addirittura vitale perché il sistema dei «crediti» scolastici concessi ai partecipanti garantisce la certezza del pubblico nelle matinées. Sono forme di didattica à la page favorite da docenti di buona volontà, sebbene non di rado in balia delle mode letterarie, cioè televisive, per cui Fazio fa più testo di Segre o di Garboli. Ma nel rapporto tra un festival e il suo habitat a contare davvero sono il nesso non occasionale con il luogo, la «necessità» di quella manifestazione specifica, e il coraggio. Il coraggio di sperimentare nell’orizzonte sia linguistico sia urbanistico, come accadde a iniziare dalla prima «Estate romana» del 1977 – quarant’anni fa – per le stagioni dell’«effimero» brevettato da Renato Nicolini: antidoto alle paure degli «anni di piombo», nonché premessa a un’offerta e a una domanda stabili di cultura e di spettacolo (un «ciclo» nel segno dell’estetica tanto lungo da aver soppiantato l’impegno politico).
Si può interpretare in questi termini la reazione torinese in difesa del Salone del Libro di fronte al rischio dello «scippo» da parte di Milano, con un volitivo pronunciamento di Alessandro Baricco tra i primi. Sotto la Mole, Regione e Comune hanno fatto quadrato intorno al nuovo direttore Nicola Lagioia, che ha contenuto i costi d’intesa con il neopresidente Massimo Bray e ha allestito un Salone «multidisciplinare» grazie agli inserti musicali e teatrali. Da segnalare inoltre l’incremento degli appuntamenti off serali in città e l’idea del «Superfestival», una vetrina di numerose rassegne italiane con il relativo effetto moltiplicatore sui social network. Il tema del trentennale, «Oltre il confine», ha ripreso implicitamente quello del ventennale («Confini» del Salone 2007): un occhio rivolto all’«altra America» nell’era Trump e l’altro a una sorta di messaggio subliminale… Il vero limen da cui non arretrare era e resta la Torino post-Fiat, che negli ultimi lustri di riffa o di raffa è stata capace di sfuggire al destino di una nostrana rust belt, la cintura di ruggine delle fabbriche chiuse nel Midwest americano, in nome dell’economia immateriale, del terziario artistico-culturale e di una rete pubblico-privata di musei e di attività, dall’Egizio al Castello di Rivoli, dalla Film commission alla Scuola Holden… Così stavolta Torino è riuscita a contenere le lacerazioni politiche intra moenia che, tra l’altro, rischiano di paralizzare il Museo del Cinema dopo il fertile dodicennio di Alberto Barbera, senza un direttore da mesi (una selezione è stata portata a termine e quindi annullata), sullo sfondo dei tagli alla cultura nel bilancio della giunta Appendino.
Mentre Milano negli stessi giorni del Salone ha battuto un colpo simbolicamente rilevante grazie alla marcia dei centomila migranti il 19 maggio, che ha rinverdito la tradizione di accoglienza e solidarietà nell’ex capitale morale d’Italia: un evento culturale tout court, ben di là dalle cronache politiche del giorno dopo. Altro dal lascito controverso e modaiolo dell’Expo 2015, il cui titolo «Nutrire il Pianeta» taluni declinano nei termini dell’«apericena» sui Navigli.
Non di solo mercato si alimentano l’identità territoriale e il primato di una città in un ambito. Donde il passo falso o quantomeno incerto dell’Aie in direzione di Rho. Per altri versi, l’insuccesso di Cannes 2017 si deve paradossalmente a un programma intessuto di nomi altisonanti per celebrare il settantennale. I film più preziosi erano confinati nelle sezioni minori, fra cui spiccava A Ciambra dell’italoamericano Jonas Carpignano, storia di un ragazzino Rom nella zona di Gioia Tauro. Scarso il rilievo offerto sulla Croisette alla sperimentazione, tranne che per un’installazione di realtà virtuale sui clandestini lungo il confine tra Stati Uniti e Messico, Carne y Arena, concepita dal premio Oscar Alejandro Gonzáles Iñárritu (dopo Cannes è allestita alla Fondazione Prada di Milano che l’ha coprodotta, dove resterà fino al 15 gennaio 2018).
La mera fedeltà di un festival al proprio copione tradizionale, per quanto glorioso sia l’album d’oro, non basta a garantire un corpo vivo, e pulsante giusto perché imperfetto, contraddittorio, temerario. Non è soltanto una questione di biglietti venduti, di rassegna stampa o di risorse assessorili, ma di quale vento soffia nei luoghi e dai luoghi del festival: bonacciare è andare alla deriva.
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