Ci sono, scrisse qualche anno fa Ray Oldenburg, strani posti: luoghi terzi (third places) li definì, per dire che non contava solo il loro valore “funzionale” ma quello sociale, di incontro e aggregazione. L’esempio del barbiere è il più nitido: ci si va per farsi tagliare i capelli, ovvio. Ma intanto conosciamo la vita del quartiere, incontriamo e ci confrontiamo con persone diverse da noi, per professione e idee: “I third places contrastano la tendenza a essere restrittivi nel godere degli altri perché sono aperti a tutti e perché enfatizzano qualità non limitate alle distinzioni di status prevalenti nella società”.
Traggo la citazione da un libro di Antonella Agnoli che parla di biblioteche (Le piazze del sapere. Biblioteche e libertà, Laterza). Ed è chiaro che la Agnoli, quando riferisce di barbieri e third places, pensa proprio alle biblioteche come le vorrebbe: luoghi dove si va non solo per leggere (o per connettersi in rete, ascoltare cd, vedere dvd). Tutte attività necessarie: senza forbici e rasoio chi andrebbe dal barbiere? Ma se non c’è altro la biblioteca appassisce. Così in questo libro si parla molto di architettura e (relativamente) poco di libri. Più di come organizzare la segnaletica e scegliere le sedie giuste che di biblioteconomia. Non di come conservare i libri ma di come costruire piazze (con i libri, certo). Fino alla provocazione vagamente postmoderna: “Imparare dai supermercati”, ossia dai comportanti reali dei consumatori.
Cosa c’entra tutto questo con le biblioteche e la lettura? Dipende. Se si ritiene, come la Agnoli, che una certa idea elitaria e reverenziale del libro sia in Italia tra le cause della sua scarsa popolarità va bene tutto per abbattere il muro (e in effetti biblioteche come quella che la Agnoli ha creato a Pesaro di muri ne hanno pochini). Anche correndo un rischio radicale: se la lettura perde la sua specifica profondità che bisogno abbiamo dei libri? Ma il discorso diventa più interessante se non si pensa solo al destino dei libri ma più o meno a quello della nostra intera società. Sempre più segnata da destini limitati, da esperienze circoscritte o virtuali. Anche l’infinita Rete pare in realtà favorire le relazioni tra affini (politicamente, culturalmente, per gusti e costumi): magari fisicamente lontanissimi ma simili. I dati che documentano questa vera e propria paralisi della mobilità sociale sono ormai infiniti e alcuni anche grotteschi, come quelli che segnalano la tendenza alla scomparsa perfino dei matrimoni misti, nel senso di contraenti provenienti da ambienti sociali diversi.
Sotto questa luce la questione di cosa fare delle biblioteche diventa perfino troppo significativa. La privatizzazione o commercializzazione degli spazi pubblici lascia in effetti poco spazio ai luoghi misti. Il principale continua a essere la scuola, ma forse non è un caso che la sua promiscuità sia in vari modi messa in discussione.
Luoghi fisici aperti all’incontro anche casuale avrebbero dunque la funzione civile di riavviare la mobilità sociale. Qualche biblioteca in giro per l’Italia ha già provato a reinventarsi questa missione. Ma su tutte incombe un rischio capitale: la riduzione di ogni forma pubblica di investimento assomiglia ormai a una vera e propria dichiarazione di irrilevanza. Non solo delle biblioteche, a questo punto, ma della stessa questione della mobilità sociale. Negli Stati Uniti per difendere questo spazio pubblico si è mosso perfino Ray Bradbury. Qualcosa si muoverà anche qui?
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