Quello che è sfuggito alla maggior parte dei commentatori che in questi giorni sono intervenuti sugli scontri in valle di Susa è che la Tav di cui oggi si parla è una cosa molto diversa dalla Tav contro cui la valle insorse nel 2005. Allora si trattava di un’opera imposta senza alcun confronto con i territori interessati, oggi invece siamo di fronte a un progetto che è stato ridiscusso punto per punto per ben cinque anni tra tecnici di fiducia di tutte le parti coinvolte compresi i sindaci della valle. Dopo le clamorose proteste del 2005, fu deciso infatti di mettere da parte il vecchio progetto e di ripartire da zero. L’Osservatorio tecnico, guidato da Mario Virano, affrontò dapprima una riflessione approfondita sull’effettiva necessità dell’opera, poi cominciò a delineare un progetto alternativo.
Il risultato finale ha poco a che spartire con il progetto del 2005. È rimasta l’ipotesi del tunnel di 57 km tra Italia e Francia, ma tutto il resto è cambiato. La nuova linea ferroviaria Torino-Lione corre lungo la valle quasi completamente in galleria, esce allo scoperto soltanto nel territorio di due comuni (Susa e Bussoleno), prevede una nuova stazione a Susa a metà della valle, non bypassa più Torino. Inoltre non si pretende più di realizzarla tutta assieme. Per ora si farà solo il tunnel di base e il nodo di Torino fino all’imbocco della valle e si utilizzerà, per il resto, la vecchia linea. Il costo per l’Italia, per i prossimi 30 anni, dovrebbe aggirarsi sui 4,7 miliardi: una cifra enorme, ma che è comunque la metà di ciò che si preventivava nel 2005. Non esiste nessun’altra opera pubblica in Italia che sia stata affrontata attraverso un processo così approfondito, inclusivo e attento ai problemi del territorio. L’Osservatorio sulla linea Torino-Lione è stato veramente un unicum.
Tutto bene dunque? Certamente no. L’Osservatorio ha lavorato eccessivamente al chiuso, ha prodotto documenti innovativi e utilissimi ma poco abbordabili, non ha saputo intrattenere una relazione diretta con i territori che ha delegato ai sindaci. Il rapporto con le amministrazioni locali ha subito varie scosse, fino all’uscita dall’Osservatorio della maggior parte dei sindaci (ma non quelli di Susa e Chiomonte) nel 2010, in seguito alle elezioni amministrative che avevano visto un discreto successo delle liste no-Tav. Ma soprattutto il governo nazionale non ha fatto la sua parte. I critici della Tav hanno perfettamente ragione quando sostengono che l’attuale flusso di merci sulla ferrovia tra Italia e Francia non giustifica la nuova linea. Il problema è infatti quello di spostare le merci dalla gomma al ferro. Ma il governo italiano è veramente intenzionato a promuovere una seria politica di trasferimento modale, come hanno fatto Svizzera e Austria? Per adesso si direbbe di no. E questo getta pesanti ombre sull’intera operazione.
In tutti questi anni il movimento no-Tav ha osteggiato qualsiasi apertura al dialogo. Ha considerato l’Osservatorio come un imbroglio e ha tacciato di tradimento i sindaci che vi partecipavano. Oggi, quando i sostenitori del movimento, come Paolo Ferrero, sostengono che “il governo ha il dovere di aprire un confronto con la popolazione della Val di Susa e con i suoi rappresentanti, al fine di determinare quel dialogo che sin qui è stato impossibile”, sembrano ignorare che questo confronto c’è stato eccome, che ha prodotto risultati importanti, ma che sono stati proprio i comitati no-Tav a sottrarsi a qualsiasi forma di discussione.
Il problema è che la Tav, a partire dalle epiche giornate del 2005, ha cessato di essere una linea ferroviaria – con i suoi pregi e i suoi impatti (in parte superabili) – ed è diventata un emblema che condensa in sé tutte le nefandezze (distruzione del territorio, spreco di risorse, hybris tecnologica, speculazione affaristica, mafia) che si annidano in Italia nei grandi progetti di modernizzazione; il simbolo vivente di un modello di sviluppo ormai improponibile. Tutti gli italiani sanno che quelle nefandezze non sono affatto immaginarie. Molti capiscono che abbiamo più bisogno di piccole opere diffuse che di grandi opere concentrate. Ed è per questo che la “valle che resiste” è diventata un punto di riferimento in tutta Italia.
Ma il muro contro muro che si è venuto a determinare nella valle (e oltre) non conviene alla lunga a nessuna delle parti in conflitto. Non conviene ai fautori della modernizzazione che non possono non riconoscere la fondatezza di molte obiezioni del popolo no-Tav e dovrebbero quindi ripensare ai modi e ai criteri con cui vengono decise le opere pubbliche in Italia e le loro priorità; né possono pensare di reggere manu militari i cantieri per gli anni a venire. Ma, a ben vedere, non conviene neppure al fronte no-Tav. I movimenti hanno bisogno di identificare concretamente il loro nemico. La Tav funziona benissimo allo scopo perché consente uno straordinario ancoraggio materiale alla protesta. Ma può costituire anche una trappola, perché costringe il movimento a misurarsi continuamente su quell’unico punto senza alcuna possibilità di manovra, anche a costo di rompersi la testa (o di romperla a qualcun altro) e di vedersi logorare il bacino di consenso che ha sempre avuto nella valle e che costituisce la sua risorsa più preziosa.
L’ideologia contro le grandi opere è figlia dell’ideologia delle grandi opere. È possibile spezzare questa feroce – e per certi versi assurda - contesa? Avremmo bisogno di un disarmo bilaterale che sapesse affrontare il nodo delle infrastrutture di cui l’Italia ha veramente bisogno, attraverso una riflessione collettiva e strutturata. Non è facile, ma ci si potrebbe provare.
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