L’etno-nazionalismo irrompe nella cultura politica dei cattolici negli Stati Uniti. La linea di faglia tra “white Catholics” e gli altri cattolici non bianchi, già visibile in occasione delle elezioni del 2008 e del 2012, nel 2016 si è ampliata con l’elezione di Donald Trump. Questa differenziazione per linee etniche-razziali si aggiunge alla più importante linea di faglia dagli anni Settanta a oggi, conseguenza della legalizzazione dell’aborto a livello federale nel 1973. Oggi l’effetto della presidenza Trump sulla cultura politica del cattolicesimo americano è evidente.
Se nel 2015-2016 il cattolicesimo conservatore americano aveva votato Trump turandosi il naso pur di evitare Hillary Clinton, dal gennaio 2017 a oggi il cattolicesimo conservatore-tradizionalista negli Stati Uniti mostra un crescente allineamento all’appello di “America first”.
La transizione interna al cattolicesimo americano dalla cultura politicamente e teologicamente neo-conservatrice e post-liberale degli anni Ottanta-Novanta a una cultura politicamente e teologicamente tradizionalista illiberale e anti-liberale era già visibile da qualche tempo. Se il neo-conservatorismo aveva fatto leva sul pontificato di Giovanni Paolo II, il neo-tradizionalismo cattolico americano oggi va visto come parte dell’entusiasmo d’oltreoceano per la teologia politica del pontificato di Benedetto XVI. Uno dei fenomeni più interessanti nel cattolicesimo conservatore e anti-bergogliano negli Stati Uniti oggi è infatti la saldatura a una visione teologica che ha ormai archiviato Giovanni Paolo II, si richiama apertamente a Joseph Ratzinger/Benedetto XVI, e accoglie l’appello etno-nazionalista del Partito repubblicano conquistato da Donald Trump.
Uno dei segnali è venuto da un manifesto pubblicato qualche settimana fa dalla rivista-bandiera del progetto teologico e politico anti-liberale, “First Things”, firmato da un pugno di giornalisti e accademici che rappresentano una minoranza agguerrita e ben finanziata. Tale manifesto annuncia l’abbraccio al trumpismo da parte del conservatorismo cristiano e cattolico in America. Non è nuovo lo schieramento del cattolicesimo conservatore contro il Partito democratico sulla questione dell’aborto e delle life issues. Nuova è invece la critica contro il capitalismo globalizzato neo-liberale che si raccorda all’etno-nazionalismo. Il manifesto dichiara la morte del vecchio consenso politico novecentesco post-1945, quello che portò alla sconfitta del comunismo. Queste nuove leve del cattolicesimo Usa, che sono cresciute con la cultura neo-conservatrice che si proponeva di difendere e di imporre un certo ordine nazionale e internazionale anche con la forza (per esempio, l’invasione dell’Iraq), ora sostengono che un nuovo consenso debba coagularsi in vista del superamento del sistema liberale a livello sia nazionale sia internazionale: “L’avanzamento del bene comune richiede di stare con, piuttosto che abbandonare, i nostri compatrioti. Sono nostri concittadini, non unità economiche intercambiabili. Come americani abbiamo un dovere di particolare fedeltà reciproca e dobbiamo dare priorità agli americani”. La teologia politica al servizio del nazionalismo americano non è certo nuova nella storia del cristianesimo protestante negli Usa, ma è nuova per il cattolicesimo. “Abbracciamo il nuovo nazionalismo nella misura in cui si oppone all’ideale utopico di un mondo senza confini che, in pratica, conduce alla tirannia universale. Qualunque cosa si possa dire al riguardo, il fenomeno Trump ha aperto uno spazio in cui porre nuovamente queste domande. Custodiremo gelosamente questo spazio. E noi rispettosamente rifiutiamo di unirci a coloro che vorrebbero resuscitare un reaganismo riscaldato”.
Il testo pubblicato da “First Things” dà voce al cristianesimo conservatore americano alla ricerca di una nuova incarnazione politica, che vede in Trump un elemento provvidenziale per l’America nel mondo globale post-americano. Per “compatrioti” si intendono gli americani bianchi, ed è significativo il silenzio circa le politiche e il messaggio politico dell’amministrazione Trump verso le minoranze di cittadini americani, non solo verso gli immigrati. Non è solo nazionalismo, ma è nazionalismo bianco cattolico. L’ideologia del “white supremacy” nasce come parte della cultura protestante negli Stati Uniti dell’Ottocento, ma nel corso dell’ultimo secolo è arrivata a lambire anche il cattolicesimo.
Non sono solo alcuni intellettuali cattolici ad abbracciare il trumpismo: basta guardare al modo in cui la presidenza Trump è stata festeggiata qualche settimana fa dal “National Catholic Prayer Breakfast” – uno degli eventi che riunisce a Washington ogni anno le élite politiche e finanziarie del cattolicesimo negli Stati Uniti.
L’etno-nazionalismo che sostiene il trumpismo è un problema teologico e religioso non solo per gli evangelicali bianchi, che sono il blocco elettorale che sostiene Trump apertamente e ufficialmente, ma ora anche per i cattolici. Questo apre scenari inediti. Dal punto di vista interno, la leadership episcopale cattolica è paralizzata da un vuoto di autorità creatosi anche a causa della crisi degli abusi sessuali. Diversa è la situazione dei rapporti internazionali tra il cattolicesimo statunitense e il Vaticano. Nel maggio 2017 Donald Trump andò in udienza da papa Francesco e in questi ultimi due anni non si è fatta attendere la risposta di Roma alla traiettoria di “America first”. Nel luglio 2017, “Civiltà Cattolica” (la rivista dei gesuiti che viene vistata in Vaticano prima della pubblicazione di ogni numero) si pronunciava con un articolo co-firmato dal direttore e intimo di papa Francesco, padre Antonio Spadaro SJ, sull’ecumenismo dell’odio tra cattolici e protestanti in America. Un anno dopo, nel luglio 2018, con le medesime firme e sulla stessa rivista, compariva un altro articolo di critica alla “teologia della prosperità” di origine americana. Nel numero di fine aprile 2019 si trova un articolo di Jean-Claude Hollerich, gesuita, arcivescovo di Lussemburgo e presidente delle conferenze episcopali europee, che rappresenta uno dei più forti richiami nella storia del cattolicesimo recente alla responsabilità dei cattolici per il futuro dell’Europa in termini di rigetto dell’etno-populismo cristiano di provenienza americana (Bannon) e russa (Dugin). Scrive Hollerich:
Un cristianesimo autoreferenziale rischia di veder emergere punti comuni con questa negazione della realtà e rischia di creare dinamiche che alla fine divoreranno il cristianesimo stesso. Steve Bannon e Aleksandr Dugin sono i sacerdoti di tali populismi che evocano una falsa realtà pseudo-religiosa e pseudo-mistica, che nega il centro della teologia occidentale, che è l’amore di Dio e l’amore del prossimo.
Ma non è solo la rivista dei gesuiti a farsi sentire. La sessione plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze sociali che si terrà in maggio ha per titolo “Nazione, Stato, Stato Nazione”: è anche una risposta al progetto di Steve Bannon e dei suoi (pochi) alleati nella chiesa in Italia e in Europa di produrre alle elezioni europee un’ondata populista simile a quella dell’elezione di Donald Trump, come anche una risposta al governo etno-populista “guidato” dal ministro dell’Interno Matteo Salvini in Italia.
Fin dall’elezione di Francesco il 13 marzo 2013 era chiaro che questo pontificato avrebbe reso l’Atlantico più largo: il Vaticano e l’America più distanti tra loro. Meno prevedibile era l’involuzione ideologica e teologica del cattolicesimo conservatore negli Stati Uniti al traino del fenomeno Trump. Questa frattura all’interno del cattolicesimo americano, e tra America e Vaticano ha risvolti teologici e politici di grande rilievo. È difficile trovare un momento simile nella storia dei rapporti tra il papato e gli Stati Uniti. Il futuro della Chiesa e del papato (leggi: il prossimo conclave) sarà influenzato dalla crisi politica, intellettuale e morale della Chiesa statunitense, una delle più grandi e potenti nel cattolicesimo globale.
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