Un’amicizia nata nel 1968, su una terrazza a Roma, in via dell’Oca, colorata da girasoli. Un’atmosfera calda e lucente accompagna il primo incontro tra Goffredo Fofi ed Elsa Morante. Prima di allora, a Fofi – che di lei aveva letto con un certo trasporto L’isola di Arturo («È leggendo[lo] che mi sono innamorato della [sua] arte») consigliatogli da alcune amiche - era capitato soltanto di intravederla in piazza del Popolo o di sentire parlare di lei da amici comuni del mondo intellettuale di quel periodo. Già su quei primi incontri, seppur incoraggiati da particolari «sintonie», sembrava pesare la diversità dei percorsi, come ammette lo stesso Fofi nel capitolo dedicato alla scrittrice all’interno del suo Strade maestre. Ritratti di scrittori italiani (edito da Donzelli nel 1996):
«Era una donna bellissima, pochi l’hanno ricordato: una delle più belle che mi sia capitato di vedere. Ma l’immagine che mi ero fatta di lei, nel mio moralismo e nella mia giovanile intransigenza “politica”, era legata a un ambiente che consideravo […] frivolo, “disimpegnato”».
Fofi si faceva guidare da uno sguardo politicizzato e alimentato da ideali rivoluzionari; Morante, maggiore di lui di 25 anni, coltivava il suo mestiere di letterata: aveva già pubblicato alcuni scritti e proprio in quell’anno avrebbe dato alle stampe Il mondo salvato dai ragazzini , che Fofi avrebbe recensito alcuni mesi dopo per i «Quaderni piacentini», rivista culturale per la quale affiancava la direzione di Piergiorgio Bellocchio. «Opera rara e di freschezza e di entusiasmo – pur nei momenti di più lancinante tristezza – la sua lettura è d’una “allegria” e di una eccezionalità tali da meritarle un’attenzione tutta particolare», si legge nel commento sul numero 38 del luglio 1969.
Entrambi consapevoli delle divergenze tra i rispettivi sistemi di valori provarono a far dialogare la componente più materialista e quella più spiritualista della Storia
Tra i due nacque un’intesa profonda e al tempo stesso sincera: entrambi consapevoli delle divergenze tra i rispettivi sistemi di valori provarono a far dialogare la componente più materialista e quella più spiritualista della Storia. Non senza contrasti. Nel clima delle trasformazioni e delle rivendicazioni della fine degli anni Sessanta, Morante credeva che al movimento mancasse quel prendere sul serio l’arte e la letteratura che avrebbero contribuito, a suo parere, a rendere effettiva ed efficace la rivoluzione; di contro, accusava i militanti di essere genericamente «tutti fascisti». Fofi sentiva al contrario il bisogno di ideali che si traducessero in azione collettiva, in coscienza di classe, e le rimproverava di preferire il racconto alla messa in pratica delle idee.
In entrambi era vigile e intensa la voglia di trasformare la realtà, di dare voce agli oppressi: ma le strade per giungere all’obiettivo erano di segno opposto. Morante si era prefissata di svolgere questo compito con la macchina da scrivere, raccontando le storie di coloro che sono calpestati dalle ingiustizie. Ossia di quanti «vivono la storia senza viverla, sono cioè succubi dei grandi avvenimenti storici senza avere reale coscienza di questi avvenimenti che li sovrastano, e senza saper contrapporsi alle scelte che gli altri fanno sulla loro pelle» (sempre Fofi, nelle pagine in cui ritrae l’amica). La determinazione nel continuare ad abitare il proprio punto di vista fece sì che qualche anno dopo, tra i due, si consumasse anche una rottura, che non avrebbe però impedito il continuare a coltivare stima reciproca. Racconta Goffredo Fofi a tal proposito: «litigammo “per questioni politiche” quando le dissi che per me era più importante la vita di un proletario e militante che non quella di un poeta».
In entrambi era vigile e intensa la voglia di trasformare la realtà, di dare voce agli oppressi: ma le strade per giungere all’obiettivo erano di segno opposto
E a questa amicizia, con le sue peculiarità e le sue stranezze, tipiche entrambi di un rapporto privilegiato e vero, possiamo guardare grazie al carteggio pubblicato col titolo Cara Elsa. Storia di un’amicizia (Liguori, 2022). Sono poco meno di una trentina di lettere che i due si scambiarono tra il 1968 e il 1981. Testimoniano la bellezza di una relazione e, leggendole, non si può che affacciarsi su di esse in punta di piedi, rimanendo sulla soglia di un’intimità affettiva di cui ovviamente possiamo solo cogliere alcune sfumature superficiali.
Un paio di occorrenze in particolare fanno emergere con forza la profondità del loro legame. Un primo passaggio lo si trova nella prima lettera che il 24 agosto 1968 Fofi invia alla Morante (si apre con un formale «Cara signora» che dopo poche settimane lascerà il posto a un più affettuoso «Cara Elsa»). Scrive: «Mi piacerebbe conoscerla e parlare una volta con lei (non tanto dei testi, quanto di quel che c’è dietro, e intorno)». O ancora in una lettera non datata in cui lei scrive a lui: «Erano 268 ore che essi parlavano e ancora non si erano detti 1/100 delle cose che avevano da dirsi». Goffredo Fofi ed Elsa Morante erano distanti, portatori di due rappresentazioni del mondo più opposte che complementari, ma condividevano al tempo stesso l’intesa di chi passerebbe ore e ore a sviscerare un romanzo oppure un saggio, con la curiosità di trarne tutto quello che può essere riferito a quanto è già stato detto e, ancor di più, quanto potrebbe invece dare vita a nuove riflessioni e a nuovi sguardi. C’è una tenerezza nel constatare che la stessa Morante fosse sorpresa da quel legame profondo: «mentre rimane perfettamente naturale che a me fosse (e sarebbe) caro frequentarti, io stessa mi sono sempre meravigliata che tu mi frequentassi».
La franchezza nello scambiarsi opinioni e l’ammettere l’impossibilità di una totale comprensione reciproca, creerà una tensione continua. La loro amicizia in ogni caso sarà in grado di resistere, forse perché – come ammette la stessa scrittrice - «ci sono momenti in cui solo certe voci possono darci una risposta». E la voce di Fofi era insostituibile.
Chiarita la disarmonica armonia che percorre le pagine del carteggio (il volume conta in tutto 88 pagine) queste lettere parlano di un ideale. Il vero nodo della questione è se l’esistenza autentica richieda più una meditazione interiore oppure un andare tra gli uomini. Se al cambiamento si contribuisce dal di fuori o dal di dentro. Il 26 novembre del 1968 Morante parla della sua idea di mettere in pratica la «rivoluzione culturale» diffondendo i suoi libri gratuitamente e regalandoli ai suoi lettori privilegiati, ossia coloro che avrebbero compreso e si sarebbero ritrovati, ad esempio, nei panni del suo Arturo. Più in generale, per Morante la sua idea di trasformare la realtà non può essere disgiunta dalla domanda sul ruolo della produzione intellettuale nella storia. Sarà questa inquietudine che la porterà a redigere il Piccolo manifesto dei comunisti (senza classe né partito) dove afferma che «l’onore dell’uomo è la libertà dello spirito», quale dimensione naturale dell’individuo che cerca di coniugare bello e buono.
Fofi, dal canto suo, non smette di sottolineare il bisogno di spendersi in prima persona per dare voce ai senza voce.
«Per abbattere i Leviatani è importante comunque non farsi sommergere dalle sfiducie ricorrenti – ad ogni girar di venti storici – e continuare ad agire. Fossi certo che domani il mondo finisce distrutto dall’ignominia umana – che ha un nome, ed è capitale – non farei che lottare ancor più accanitamente perché questo non avvenga, anche sapendo che avverrà».
Infine, nell’ultima lettera – spedita da Morante a Fofi – troviamo il racconto «vero (vero almeno in parte, e fino a un certo punto)» che ruota attorno a una zuppa inglese e che ha ispirato il cortometraggio Le pupille di Alice Rohrwacher, un concentrato di poesia recentemente candidato agli Oscar. Si tratta di una storia ambientata intorno agli anni Quaranta del secolo scorso, in un collegio religioso, tra la Vigilia e il giorno di Natale. Protagonista è un gruppo di bambini, la cui genuina vivacità fa da contraltare all’atmosfera austera dominata da silenzio, rigore e spirito di sacrificio (con riferimento anche a “Fioretti”, della raccolta Racconti dimenticati). Trentasette minuti di bellezza, che trascorrono tra le note swing di una vecchia canzone e un gioco che alterna chiaro-oscuri, con scene di interni illuminate dalla luce del fuoco del camino o dalle candele e un mondo, al di fuori di quelle mura, rischiarato dal bianco della neve.
Il carteggio tra Goffredo Fofi ed Elsa Morante ci restituisce uno sguardo verso il mondo e verso la vita che ci fa fare i conti con il nostro modo di essere nel proprio tempo e nella società. Ci imbattiamo tanto nella sensazione che la cultura sia un rifugio, quanto nell’invito a farsi carico delle ingiustizie e di quelli che vivono ai margini. Ci si trova il rapimento dato dall’incanto del mare dell’isola di Procida e una dichiarazione d’amore per Napoli «piena di cose belle e brutte, ma quasi tutte vive». Sorridiamo immaginando Fofi mangiare yogurt sotto l’immagine di Mao (Lettera IX) così come di fronte a Morante che batte la propria corrispondenza a macchina perché «ho perduto da qualche parte la mia penna e colle biro non so scrivere» (Lettera XI).
Riproduzione riservata