È passato un anno dall’assalto a Capitol Hill e gli Stati Uniti non sembrano aver fatto grandi passi in avanti per uscire dalla situazione di crisi democratica in cui sono. Anzi.

È difficile dare una definizione compiuta di cosa sia stato quell’attacco al cuore delle istituzioni elettive: si è trattato di un tentativo di colpo di Stato ordito dagli ambienti vicini al presidente sconfitto o di una manifestazione di protesta degenerata? Guardando in televisione la folla di persone di mezza età che sfasciavano finestre e mettevano i piedi sulle scrivanie dei loro leader democraticamente eletti stavamo assistendo alla rivolta rabbiosa di una micro-minoranza rumorosa legata a quelle milizie libertarie, di destra e anti Stato che prosperano negli Stati Uniti a partire dagli anni Novanta o a qualcosa di destabilizzante per le fondamenta stesse della Repubblica?

Il 6 gennaio 2021 Trump evitò di intervenire per calmare gli animi come gli chiedevano di fare il suo capo dello staff o Sean Hannity, uno dei più importanti commentatori conservatori d’America

Probabilmente quel giorno si mischiavano molte cose perché quella folla era la diretta emanazione del suo leader, una figura che non ha una bussola costituzionale in mente, che crede in tutto e nel suo contrario, che non ha particolare interesse nel misurare le conseguenze delle sue parole o dei suoi atti. In queste settimane la commissione d’inchiesta della Camera ha diffuso degli scambi di messaggi tra figure dell’establishment del partito repubblicano che ci hanno rivelato come il 6 gennaio 2021 Trump evitò di intervenire per calmare gli animi come gli chiedevano di fare il suo capo dello staff o Sean Hannity, uno dei più importanti commentatori conservatori d’America. E qui c’è un primo punto che segnala la crisi.

Mentre Hannity e Ingraham (altra intellettuale mediatica della destra) scrivevano al capo dello staff per implorare il presidente di uscire allo scoperto, diversi eletti presero la parola in aula per condannare risolutamente quanto accadeva. In pubblico e, più importante da segnalare oggi, in privato, la preoccupazione era enorme. Ma cosa ne è di quelle paure? Il partito repubblicano in Senato ha usato la regola del filibustering (chiamiamolo ostruzionismo parlamentare, per brevità) per impedire la creazione di una commissione d’inchiesta bicamerale come quella istituita per l’11 settembre. Diverse figure mediatiche importanti hanno più volte alluso a teorie del complotto di vario tipo per derubricare quanto accaduto mentre l’ala più improbabile ed estrema degli eletti del partito - non sono pochi - continua a ribadire che le elezioni sono state truccate altrimenti Biden non avrebbe mai vinto - ribadiamolo: niente potrebbe essere più falso, ci sono state indagini, inchieste, riconteggi, decine di tribunali hanno respinto i ricorsi e in molti Stati a certificare i risultati sono stati eletti di fede repubblicana.

L’atteggiamento del Grand Old Party è pericoloso perché il sistema politico elettorale e quello istituzionale degli Stati Uniti sono stati immaginati per un sistema bipartitico nel quale gli uni e gli altri si riconoscono e riconoscono legittimità agli avversari

Uno dei due partiti su cui si fonda la democrazia americana rifiuta insomma di guardare alla realtà. O meglio, la conosce ma usa i dubbi nella speranza di mantenere il fuoco vivo sotto alla pentola del risentimento fino al 2024, quando si tornerà a votare. Si tratta di una scelta pericolosa per la democrazia ma in linea con altre decisioni prese dai repubblicani dopo l’elezione di Obama: non ridicolizzare teorie del complotto come quella sul certificato di nascita dell’ex presidente, silurare ogni iniziativa democratica sulla base del calcolo elettorale, usare e torcere le regole per il proprio tornaconto. Questo atteggiamento del Grand Old Party è pericoloso perché il sistema politico elettorale e quello istituzionale degli Stati Uniti sono stati immaginati per un sistema bipartitico nel quale gli uni e gli altri si riconoscono e riconoscono legittimità agli avversari. Se uno dei due partiti smette di giocare alla democrazia secondo le regole che hanno fatto tenere il sistema nonostante una storia fatta di scossoni non indifferenti, allora a Washington (non a Houston) abbiamo un problema molto serio. C’è poi che questo atteggiamento alimenta quello uguale e contrario da parte democratica: perché giocare con dei golpisti che non rispettano le regole?

Il problema aggiuntivo per la democrazia Usa riguarda gli effetti di questo modo di essere repubblicano su di un’opinione pubblica più polarizzata. Un recente sondaggio Cbs-YouGov fotografa la situazione: l’85% dei democratici parla del 6 gennaio come di una «insurrezione», contro il 21% dei repubblicani, mentre una rilevazione Associated Press-Norc Center for Public Affairs Research rileva che solo 4 repubblicani su 10 ricordano il 6 gennaio come «violento». La polarizzazione non è solo di appartenenza e giudizio su Trump e il 6 gennaio ma su ogni argomento o quasi occupi spazio sui media, che si tratti dell’aborto, delle armi, della Corte Suprema, delle tasse, dell’ambiente, delle relazioni tra minoranze, i pericoli per la democrazia e il processo elettorale. Paradossalmente alcune cose su cui gli americani sono d’accordo sono quelle che dividono i partiti in Congresso: tassare i più ricchi, migliorare la copertura sanitaria o le infrastrutture sociali e materiali.

C’è un pezzo di società che non si riconosce più nell’America contemporanea per mille ragioni e vive separato geograficamente dalle forze che sono invece il motore del Paese

Le divisioni etico-morali-culturali e quelle sulla «deriva» della democrazia americana sono figlie di processi lunghi dei quali si è scritto davvero molto a partire dalla rivolta del Tea Party contro Obama e poi con i famosi operai del Midwest pro-Trump. C’è un pezzo di società che non si riconosce più nell’America contemporanea per mille ragioni e vive separato geograficamente dalle forze che sono invece il motore del Paese. Quel pezzo è una minoranza, esattamente come lo è il partito repubblicano nel Paese: nel 2000 e nel 2012 il presidente repubblicano eletto è stato votato da meno elettori del suo avversario, era successo solo tre volte prima. Davanti a uno scenario non buono per i propri destini, la scelta del partito che fu di Reagan e John McCain sembra essere quella di torcere la democrazia a proprio favore alimentando paure e teorie bislacche, rendendo centrali nel dibattito politico alcune questioni simbolicamente importanti. Ad esempio cercando di far passare leggi statali che bandiscono dalle biblioteche pubbliche e dalle scuole libri che parlino di sesso, facciano riferimenti alla schiavitù o alle questioni di genere. Esempi? Handmaid’s Tale di Margaret Atwood o Beloved di Toni Morrison. Del resto in Texas a metà anni 2010 si riformarono i curricula espungendo i riferimenti all’evoluzione della specie. Scelte più paradossali sono quelle fatte da 5 Stati in cui è fatto divieto di indossare la mascherina.

Quel che è peggio è che a questo furore ideologico si accompagna il furore a-democratico che punta a impedire ai democratici di far approvare due leggi che tutelerebbero il voto delle minoranze mentre decine di assemblee legislative statali ne approvano per ridimensionare quel diritto (in questo podcast curato con Mattia Diletti raccontavamo la storia di quei tentativi).

In questi lunghi mesi di pandemia si è discusso molto di modelli istituzionali e, qui e la, si affaccia l’idea che un sistema a-democratico e/o decisionista sia la migliore delle soluzioni per affrontare i colossali problemi che abbiamo dinnanzi. In forme molto diverse (sottolineo molto) questa lettura vale per gli entusiasti del governo italiano in carica così come per la propaganda di Stato della Repubblica popolare cinese. L’esempio americano, dicono a Pechino, è la dimostrazione che la democrazia è un sistema che non funziona. La verità è che un sistema per funzionare ha bisogno di una qualche forma di consenso diffuso, di accettazione delle regole. Vale in Cina, dove se si votasse il Pcc vincerebbe le elezioni e Xi verrebbe eletto presidente, e vale negli Stati Uniti. Il problema americano è che c’è metà di quello che chiameremmo arco costituzionale che piccona le colonne sulle quali l’arco stesso poggia. Impedendo a Biden tutto quel che è possibile impedirgli se ne mina la presidenza, ma anche la fiducia nelle istituzioni (non ché la competitività del sistema americano).

Così, in effetti, il sistema democratico rischia di smettere di funzionare.