Ma la parodia della poesia, o meglio del poetese, non aveva già dato tutto quel che poteva dare con Brunello Robertetti, il poeta cotonato di Guzzanti che recitava i suoi versi una ventina d’anni fa nell’Ottavo nano («Più forte dell’odio è l’amore, / più forte dell’amore / è / Mike Tyson, presempio»)? O con gli Scritti scelti male di uno dei più bravi scrittori comici di oggi, Rocco Tanica, adesso ristampato dalla Nave di Teseo? O con… (vengono in mente altri, molti altri molto meno bravi: è un genere facile, se praticato mediocremente). È la domanda che si pone l’ammiratore di Alessandro Gori, già noto con lo pseudonimo di Sgargabonzi, di fronte a questo Canzoniere dei parchi acquatici appena uscito per Rizzoli. I due precedenti libri di Gori erano libri in prosa, racconti che avevano spesso lo stigma del genio, perché in Jocelyn uccide ancora (Minumum fax, 2018) e Confessioni di una coppia scambista al figlio morente (Rizzoli, 2022) Gori era riuscito a inventarsi quasi un nuovo genere letterario mettendo uno stile estremamente sofisticato al servizio del più nero degli umorismi reperibili sulla mappa: onde esercizi di mimesi surreali come la finta pagina del diario di Anna Frank in cui Anna confessa di aver consegnato il padre ai nazisti, il diario online di una neo-orfana decerebrata, un dialogo a puntate col fantasma di David Bowie, una corrispondenza epistolare tra Ana Matronic degli Scissor Sisters e il presidente del Consiglio superiore di sanità Franco Locatelli, eccetera.
Questi esercizi in prosa Gori continua a eseguirli, si leggono ogni sabato su «Rolling Stone», e continuano a essere piccoli prodigi di fantasia e intelligenza (fate la prova con la Lettera di Jigsaw ai ristoratori romani e poi riflettete su chi altri, oggi, avrebbe il talento e la tecnica per produrre due paginette simili). Ma non è sorprendente che il geniale parodista che è Gori abbia deciso a un certo punto di cimentarsi con la poesia, il più parodiabile dei linguaggi. Qualcosa è uscito nei mesi scorsi sulla rivista online «Snaporaz» (raccomando agli stomaci forti la riscrittura della poesia di Pasolini dedicata a Marilyn Monroe, di gran lunga migliore dell’originale), ma questo volumetto contiene centotrentasette brevi o brevissime poesie nelle quali l’affezionato lettore ritrova motivi e stilemi che Gori ha eletto nel tempo a propria cifra personale: i tormentoni del pop, nomi e marchi della TV e della pubblicità di quando eravamo giovani, l’ironia sulla cultura, l’impegno, le buone cause, le malattie terminali, la morte.
Non è sorprendente che il geniale parodista che è Gori abbia deciso a un certo punto di cimentarsi con la poesia, il più parodiabile dei linguaggi
Il problema della parodia è naturalmente che, anche quando è ben riuscita, genera presto sazietà; e il problema della parodia del poetese (il poetese al suo grado zero: il semplice andare a capo prima della fine del rigo) è che il testo parodizzante funziona nella misura in cui funziona la pointe finale, quella che svela che non si stava facendo davvero sul serio, e che la seriosità dello stile (il poetese, appunto) cozza comicamente con il sorriso o il riso o lo sghignazzo della clausola. Centotrentasette poesie-barzelletta possono stancare, stancano, se lette di seguito; e non tutte possono essere, non tutte sono, poesie-barzelletta perfettamente riuscite. Ma Gori è un meticoloso costruttore di testi, e a schivare il rischio della sazietà interviene qui un’invenzione in sé stessa divertente. Un filo rosso attraversa infatti il libro dandogli compattezza di, appunto, canzoniere: sono le poesie che Lui, l’Amante, compone per riguadagnare il favore di Lei, l’Amata Stefania, salvo che anziché applicare l’etichetta del petrarchismo, Gori fa del suo Amante un campione particolarmente efferato del patriarcato. Ottuso, sfacciato, crudele, l’Amante scrive le sue poesiole per mansplainare all’Amata che lei dev’essere contenta se lui la tratta come un pedalino usato, scopa in giro e la fa abortire al quarto mese, perché sono tutti segni d’affetto, basta saperli riconoscere. Possibile che Stefania non ci arrivi?
E qui, senza troppo scherzare, si tocca il cuore del Gori filosofo, sociologo e insomma esegeta di quest’epoca bizzarra. Epoca nella quale sembra essersi perduta memoria di una verità cruciale, e ben chiara ai nostri nonni, ai nostri padri, a chiunque laico o credente si sia fermato a riflettere per un attimo sul legno storto dell’umanità, vale a dire che gli esseri umani sono delle canaglie che solo a prezzo di grandi sforzi (l’educazione, l’esperienza, il dolore) possono momentaneamente liberarsi della loro canaglieria. Non solo: che le peggiori canaglie sono spesso quelle che si percepiscono membri della chiesa invisibile dei buoni e dei retti.
Senza troppo scherzare, si tocca il cuore del Gori filosofo, sociologo e insomma esegeta di quest’epoca bizzarra
I personaggi più riusciti di Gori – in prosa e in poetese: l’Amante è uno di loro – portano questa specie di cicatrice morale ben stampata sulla faccia, per questo fanno ridere. Ma basta sprecare qualche minuto su internet (e non per caso Gori è sempre su internet) per vederli venire a galla, questi campioni della virtù beatamente inconsapevoli della loro abiezione. Per questo, anche se la cosa può far sorridere di sufficienza qualche sciocco che scambia la gravitas per profondità di pensiero, pochi scrittori hanno appreso il loro tempo col pensiero meglio di Gori: è il nostro vendicatore, la nostra kryptonite contro il narcisismo etico; e se fa ridere (ma non fa soltanto ridere) è solo perché gli è toccato vivere e scrivere in un mondo soprattutto ridicolo. (Ciò detto, sfaccendato lettore, per esplorare il pianeta-Gori comincia dai racconti in prosa e poi se vuoi passa a questo Canzoniere).
Riproduzione riservata