Australia: l'identità incognita. Il 25 aprile, l’Anzac Day (Anzac è l’acronimo di Australia and New Zealand Army Corps), è il giorno dedicato alla memoria dei caduti australiani nella Grande guerra e in quelle successive. O meglio: così era. Da tempo è soprattutto un catalizzatore delle tensioni e contraddizioni che investono l’identità collettiva australiana.
Quella che con un notevole sforzo ideologico si vorrebbe identità nazionale, imposta anche obtorto collo. Così, laddove Annah Blight veniva eletta prima donna premier nella storia australiana, assicurando il governo Labor anche nel quinto dei sei Stati della federazione, l’Anzac Day celebrava de facto il mito fondante la nazione australiana, intriso di sangue e onore (maschio e bianco). Ciò richiede di dimenticare, più che ricordare. Ad esempio, che quel giorno l’Australia coloniale combatteva per la Corona dell’impero britannico e non per la “nazione”. Oppure che, a rigore, il 1901 viene prima del 1915: quando gli “Anzac” si ritirarono da Gallipoli, massacrati dai soldati di Atatürk, l’Australia era già federazione da quattordici anni fondata. Tuttavia nell’invenzione delle tradizioni quel che più conta è l’immaginazione e il potere, non la memoria. Da qui la creazione politica del culto degli Anzac e l’ascesa, inedita a queste latitudini, della simbologia nazionale a diffuso vestiario. Se la guerra non ha creato lo Stato, lo Stato può creare la guerra. Il fatto è che gli australiani hanno combattuto sempre altrove e a sostegno di scopi altrui fatti propri, cioè britannici o statunitensi. Dalla spedizione nelle guerre anglo-maori (1860) all’invasione dell’Iraq (2003), passando appunto per la battaglia di Gallipoli (1915) contro l'Impero ottomano. L’unica guerra sul territorio australiano, dunque davvero fondante, è quella che la storia ufficiale ancora ripudia per ovvie ragioni. È quella dei britannici contro i nativi, ossia gli aborigeni, i “primi australiani”, sterminati in Tasmania e colonizzati, ma non estinti, sul continente. La sua ombra s’allunga oggi costantemente. Oscura la coscienza e il cammino di un “sé” collettivo ambiguo, incerto, contrastante, che è perciò giocoforza preteso unico, lineare, pacato in questa sua illusoria (ri)costruzione. Così, sui pennoni dei palazzi istituzionali, a fianco della bandiera nazionale australiana sventola talvolta quella della nazione aborigena. Ma non a Canberra.
Se le inquietudini interne sembrano poter essere governate, non è così per quelle esterne. È anzitutto ciò che sta fuori dall’isola che genera paura. Non è solo che il tema classico dell’invasione oggi si rigenera, incarnandosi nei pochi “migranti illegali” e “rifugiati sospetti” che giungono sulle coste settentrionali. Nel secolo XXI il pericolo asiatico è assai più temuto. È il momento dell’ascesa cinese che sfida il dominio occidentale nel Pacifico, imposto dai tempi di Vasco da Gama e Giovanni III. Lì, sull’oceano, si difende l’Australia del futuro secondo il Libro bianco della difesa 2009. Meno sulla terraferma che in acqua e nell’aria. Per questo la teoria strategica del governo parla di una flotta aerea e navale potenziata, al punto che le spese militari giungeranno al massimo storico. L’Australia si prepara così al presunto ridimensionamento della capacità statunitense. Armandosi e disponendosi ad agire e difendersi da sola, se necessario. Il presunto mutamento dell’equilibrio di potenza, da mezzo secolo stabilito sull’egemonia statunitense, genera inquietudini e insicurezza, in primis nel sistema di alleanze che vincola le scelte di India e Giappone. Soprattutto, laddove gli interessi indiani, giapponesi, russi e cinesi s’incontrano. Ancor più se il cambiamento climatico dovesse peggiorare il livello delle risorse scarse sul pianeta.
È la carta geografica a chiarire le due principali condizioni a tutela dello splendido isolamento dell’Australia come potenza marittima. Primo, il controllo delle rotte limitrofe necessarie al commercio e l’apertura delle vie marittime fondamentali come lo stretto di Lombok e Malacca. Secondo, il mantenimento di condizioni favorevoli nell’intero arco territoriale che ne segna il perimetro della sfera d’influenza, sul tracciato Nuova Zelanda-Stati insulari del Pacifico meridionale-Timor Est-Papua Nuova Guinea-Indonesia. Proprio ai militari indonesiani, considerati parte di una democrazia ormai stabile, è stata consegnata in anticipo una copia del Libro bianco, onde evitare tensioni dovute alla mancanza di trasparenza nel riarmo australiano, invece imputata allo sforzo di modernizzazione bellica cinese. Chissà che non possa servire a qualcosa.
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