Che la lotta al cambiamento climatico avrebbe avuto un posto centrale all’interno dell’agenda politica di Joe Biden era emerso sin dalla campagna elettorale. L’allora candidato democratico, in un intervento sul numero di marzo/aprile 2020 della rivista “Foreign Affairs”, aveva definito il cambiamento climatico come una “minaccia esistenziale”, sostenendo che gli Stati Uniti avrebbero dovuto “guidare il mondo” nell’affrontare la sfida climatica.
Affermazione in netta contrapposizione con la retorica di Donald Trump che, in diverse occasioni, aveva sostenuto di non credere all’esistenza del cambiamento climatico e del riscaldamento globale, fenomeni più volte indicati con l’espressione hoax – una bufala, un imbroglio – talvolta descritti come una “bufala inventata dai cinesi” o, con un riferimento ai limiti per l’economica statunitense, come “una bufala costosa”. Corollario di tale narrazione era stata la decisione, dall’alto contenuto simbolico, di uscire dall’Accordo sul clima di Parigi, sottoscritto da Obama nel dicembre del 2015, e ancor prima, lo smantellamento, a colpi di ordini esecutivi, del sistema di norme in materia energetica e di protezione ambientale che era stato introdotto dalla precedente amministrazione democratica.
Al contrario, il presidente neoeletto Biden ha espresso chiaramente la sua volontà politica di investire massicciamente e in maniera rapida per rendere il sistema economico americano a “emissioni nette zero” entro il 2050 e per far rientrare gli Stati Uniti nell’Accordo su clima di Parigi. Progetti questi che segnalano esplicitamente l’intenzione dell’ex vicepresidente di Obama di affrontare la lotta al cambiamento climatico in maniera pro-attiva e al duplice livello necessario per poterla affrontare in maniera incisiva, ossia coniugando azioni sia di politica interna sia di politica estera.
E le prime scelte compiute da Biden sembrano andare proprio in tale direzione. Ha infatti nominato John Kerry inviato speciale del Presidente per il clima, creando di fatto una nuova cabinet-level position. L’ex senatore del Massachusetts siederà nel National security council e ciò significa che la nuova amministrazione intende affrontare la crisi climatica, come sottolineato dallo stesso Kerry, trattandola come “una minaccia alla sicurezza nazionale” ed elevandola al rango di questione da affrontare ai più alti gradi di governo.
La scelta di Kerry è inoltre particolarmente rilevante per almeno un paio di ragioni. La prima è che, in veste di Segretario di Stato durante l’amministrazione Obama, Kerry ha avuto un ruolo considerevole nei negoziati che hanno portato alla firma dell’Accordo di Parigi. La sua nomina rimarca dunque l’intenzione della nuova amministrazione di agire sul fronte internazionale e in chiave multilaterale.
La seconda ragione deriva dall’esperienza che Kerry ha maturato su questo tema durante i suoi mandati da senatore: nel 1992 è stato membro della delegazione statunitense durante la Conferenza sul Clima di Rio de Janeiro, mentre nel 2009 è stato co-sponsor, insieme all’allora senatrice democratica della California, Barbara Boxer, della proposta di legge tesa a fissare un tetto massimo per le emissioni di gas serra negli Stati Uniti. Tale proposta era stata approvata dalla Camera dei rappresentanti per poi essere bocciata dal Senato, prima ancora di giungere al voto, ma anche grazie a tale esperienza Kerry è ben consapevole di quanto sia difficile convincere gli stessi statunitensi a prendere iniziative contro il riscaldamento globale che nel breve termine possono o potrebbero comportare effetti economici negativi. A ciò si aggiunge la sua profonda conoscenza dei meandri legislativi del Congresso, oltre alla sua competenza sulla scienza del cambiamento climatico, una comprensione dei costi e dei benefici economici del passaggio all'energia pulita e una serie di legami con i leader dei diversi gruppi che da anni si battono per affrontare la crisi climatica.
Nel complesso la nomina di Kerry a inviato speciale per il clima segnala la volontà politica del presidente neoeletto Biden di affrontare la crisi climatica in maniera incisiva e onnicomprensiva sia a livello di politica interna sia estera. Per ciò che concerne la domestic policy, Biden punta a varare una legislazione nazionale che consenta la riduzione delle emissioni di gas serra e avvii la transizione energetica. Da questo punto di vista, la maggioranza risicata alla Camera e la situazione ancora incerta al Senato (dipende dal ballottaggio in Georgia, ma nella migliore delle ipotesi si arriverebbe a un pareggio che potrebbe essere spezzato dal voto di Kamala Harris) complicheranno l’azione di governo. Certo, Biden potrebbe ricorrere allo strumento degli ordini esecutivi, come del resto ha fatto Trump per smantellare la legislazione di Obama su energia e ambiente, ma questo pone una serie di problemi: i ricorsi a livello statale e la possibilità che il successore alla presidenza possa cancellare la normativa introdotta sempre tramite ordini esecutivi.
A livello internazionale, l’amministrazione Biden punta non solo a riprendere le redini di quel processo negoziale multilaterale che a Parigi aveva dato i suoi frutti, sia pure limitati dal punto di vista degli obiettivi, ma anche a rilanciarlo. Qui lo scopo sembra essere duplice: non solo indurre gli altri Paesi a impegnarsi su obiettivi più ambiziosi rispetto a quelli sottoscritti cinque anni fa, ma rilanciare anche la leadership internazionale e restaurare la credibilità degli Stati Uniti che le decisioni unilaterali di Trump hanno in parte offuscato. Non a caso già ai primi di dicembre Biden e Harris hanno iniziato le discussioni con lo staff per individuare un piano concreto che possa permettere agli Usa di rientrare nell'Accordo sul clima di Parigi. E un banco di prova decisivo per una nuova leadership statunitense sul tema della crisi climatica sarà certamente la Conferenza sul Clima delle Nazioni unite (Cop26) che si svolgerà a Glasgow nel novembre 2021.
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