Sarà per le mappe elettorali che lo tingono tutto di un bel giallo uniforme, sarà per l’idea (dura a morire) che sotto Roma le cose vadano più o meno dappertutto allo stesso modo, sta di fatto che le analisi e i commenti sul successo del Movimento 5 Stelle nel Mezzogiorno battono (quasi) tutti sugli stessi tasti: voglia di cambiamento, disoccupazione giovanile, reddito di cittadinanza, antipolitica e altre cose del genere. È indubbio che questi fattori (e altri ancora) abbiano avuto il loro peso, e che dunque “funzionino” per dar conto di un successo per molti versi inatteso. Ritengo, però, che per fare un passo avanti nella comprensione di ciò che è successo il 4 marzo nelle regioni meridionali sia utile mettere da parte il grandangolo e adottare uno sguardo più ravvicinato. Uno sguardo capace di distinguere e caratterizzare gli attori in campo, di leggere le specificità dei territori, di non dimenticare cosa è successo in quegli stessi territori alle elezioni locali dell’altro ieri, di soffermarsi su dettagli dissonanti rispetto alla narrazione della cavalcata inarrestabile dei 5S.
E allora, restringendo il fuoco dell’analisi sulla Calabria, ma lo stesso sarebbe opportuno fare per le altre aree del nostro eterogeno Mezzogiorno, è innanzitutto da notare che il giallo uniforme delle mappe assume qui tonalità sensibilmente diverse, visto che nella parte Nord della regione i 5S fanno registrare uno strepitoso 50%, mentre nella parte Sud si fermano al 37%. Inoltre, il giallo del MoVimento si tinge eccezionalmente di blu, con due collegi uninominali per la Camera e uno per il Senato in cui prevale il centro-destra. Laddove vincono, i candidati grillini la spuntano sia contro navigati esponenti delle forze politiche tradizionali sia nei confronti di esponenti della società civile che godono di buona reputazione. Sbaragliano parlamentari uscenti e consiglieri regionali “di peso”, ma hanno la meglio anche contro qualche debuttante, come il “tecnico” vice presidente della Regione Antonio Viscomi, del Pd, chiamato dal governatore Oliverio a dare lustro ad una giunta regionale azzoppata dalle inchieste sui rimborsi elettorali, che si ferma al 16%, piazzandosi soltanto al terzo posto nel collegio uninominale Catanzaro-Lamezia.
Nello stesso collegio ad arrivare primo è invece Giuseppe D’Ippolito, un avvocato che, dettaglio forse non del tutto trascurabile, annovera tra i suoi clienti nientemeno che Beppe Grillo. Il punto interessante è che lo stesso D’Ippolito si era candidato – nel 2015 e sempre per i 5S – alla carica di sindaco di Lamezia Terme, raccogliendo soltanto 1.792 preferenze, talmente poche da non permettergli nemmeno di entrare in consiglio comunale. Dunque, la stessa persona che alle comunali raccoglie il 4,5% dei voti (e la cui lista non supera il 3%), dopo tre anni racimola il 45% nella competizione uninominale. Limitando l’analisi ai soli (e agli stessi!) elettori lametini, D’Ippolito passa dai nemmeno duemila voti delle amministrative del 2015 ai 14 mila delle politiche del 2018.
Sullo stesso territorio qualcosa di analogo succede nel collegio senatoriale: nella città di Catanzaro alle amministrative del 2017 la candidata sindaco del M5S raccoglie solo il 6% (con la lista che si ferma al 3,6%), che non consente nemmeno a lei di entrare in consiglio comunale. Dopo solo un anno, nell’uninominale del Senato la sua collega di partito fa registrare il 39% (il 45% se si considera solo la città di Catanzaro), percentuali elevate che aprono le porte del Parlamento anche alla candidata sconfitta alle comunali grazie alla posizione ottenuta nel listino plurinominale.
Con chi si scontravano, perdendo in malo modo, i candidati sindaco del M5S? In entrambi i casi, con esponenti del centro-destra “ben radicati” sul territorio: a Catanzaro prevale, per la quarta volta in 20 anni, il forzista Sergio Abramo, esponente di una famiglia politico-imprenditoriale tra le più in vista dell’intera regione; a Lamezia Terme conquista la guida dell’amministrazione comunale (in verità per soli 30 mesi, poiché il Comune sarà poi sciolto per infiltrazioni mafiose) un avvocato a capo di una classica coalizione di centro-destra. Quindi, nelle due città vince un centro-destra “as usual” e i 5S non decollano soprattutto a causa dei candidati di centro-sinistra che in entrambe le occasioni gli rubano la scena (e i voti), facendo proprie le parole d’ordine che gli sono valse il successo il 4 marzo: onestà, novità, estraneità rispetto alla classe politica espressa dai partiti. A queste tre parole d’ordine, il candidato di centro-sinistra a Lamezia, il medico Tommaso Sonni, e quello di una lista civica di sinistra a Catanzaro, il professore universitario Nicola Fiorita, ne aggiungono una quarta: la competenza, che ne aumenta la credibilità. E l’effetto nelle urne si vede: Sonni, col 25%, va al ballottaggio; Fiorita raccoglie il 23%, arrivando terzo, ma ha nel carniere personale il doppio dei voti delle liste che lo sostenevano.
Questi due rapidi approfondimenti su un’area circoscritta della Calabria esemplificano l’assoluta mancanza di competitività dei 5S in quelle occasioni in cui, a livello locale, sono presi tra due fuochi: uno della tradizionale costruzione del consenso che batte palmo a palmo il territorio, l’altro di candidati in grado di sfidarli sul loro stesso terreno, quello dell’estraneità alla “vecchia politica”. Ovviamente, niente di nuovo per gli studiosi del comportamento elettorale che sanno bene quanto sia improprio comparare elezioni che riguardano livelli di governo diversi, associate a poste in palio (percepite come) differenti. Allo stesso modo, niente di sconvolgente per chi conosce le dinamiche della politica meridionale, dove il voto è quasi sempre avvolto nell’involucro della relazione personale che lega elettore a candidato; un involucro che diventa piuttosto stretto quando si tratta di elezioni comunali, che lo è molto meno nel caso di collegi ampi come quelli disegnati dal Rosatellum, e che perde del tutto consistenza nei collegi macro regionali delle Europee.
Per riassumere, in Calabria il M5S si trova in questa singolare situazione: i suoi esponenti sul territorio non riescono a conquistare spazi politici di rilievo a livello locale, mentre registrano un exploit sorprendente nelle elezioni nazionali. Da ciò consegue una bizzarra fisionomia del ceto politico a 5 Stelle, composto da molti parlamentari e pochissimi eletti (e comunque collocati in posizioni marginali) nel governo locale. Cosa che, com’è noto, non succede in altre parti d’Italia, dove i 5S governano città importantissime e la mobilità tra i livelli di governo del suo ceto politico inizia ad assomigliare sempre più a quella degli altri partiti, come mostra la candidatura alle regionali del Lazio di Roberta Lombardi, prima capogruppo pentastellata alla Camera nella passata Legislatura.
In questo lembo della Penisola, la crisi di crescita che si era già manifesta a seguito delle elezioni del 2013 – quando il M5S in Calabria aveva mandato a Roma sei parlamentari, quattro dei quali ora ricandidati e rieletti – sembra dunque persistere: i 5S esprimono 17 parlamentari (sui 30 dell’intera regione), ma non riescono a costruire un substrato di eletti a livello locale. Al proposito è da notare che non pescare i candidati al Parlamento dalle fila di un ceto politico “sperimentato” localmente può avere un riverbero sulla fedeltà parlamentare dei neo-eletti. Fedeltà che deve essere infatti puntellata da singolari clausole anti-transfughi, peraltro dalla dubbia efficacia, visto che due parlamentari calabresi 5S della scorsa Legislatura, quelli appunto oggi non ricandidati, hanno cambiato gruppo parlamentare. Il partito fa dunque fatica ad istituzionalizzarsi, a mettere radici sul territorio e coltivare il ceto politico parlamentare di domani. Ciò rende fragile il lusinghiero risultato del 4 marzo e, in prospettiva, li espone alle (ormai consuete) folate di vento elettorali, che al Sud possono facilmente trasformarsi in raffiche. Raffiche che in questa occasione hanno spazzato via il 70% dei parlamentari calabresi uscenti (tasso che, paradossalmente, sarebbe stato molto più alto senza i 4 rieletti 5S) e alle quali hanno resistito solo tre esponenti del centro-destra vittoriosi in altrettanti collegi uninominali. Anche in questo caso, per capire l’emersione di queste tre isole blu nel mare del consenso grillino conviene prendere in mano la lente d’ingrandimento e scoprire, ad esempio, che i due neo deputati di centro-destra erano entrambi consiglieri regionali in carica. Una volta entrati in Parlamento, sono stati sostituiti in Regione dai loro colleghi di partito risultati primi dei non eletti alle ultime regionali. Qui, dunque, la campagna elettorale (e la posta in palio) è stata doppia e gli aspiranti consiglieri regionali non hanno lesinato impegno e risorse per far eleggere i compagni di partito cui volevano subentrare in Regione. La terza “anomalia” è più semplice da spiegare: nel collegio senatoriale uninominale di Reggio Calabria prevale il centro destra soprattutto perché i 5S espellono in corsa il proprio candidato che scoprono essere iscritto alla massoneria (ma che, malgrado ciò, raccoglie comunque il 35%).
Cinque Stelle (o forse quattro, visto che non vincono proprio ovunque) risplendono dunque nel firmamento politico della Calabria. Stelle che sarebbe senz’altro azzardato definire cadenti, ma che, alla luce delle loro alterne e incostanti fortune elettorali, non è del tutto improprio sospettare intermittenti.
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